Quasi un anno. Tanto è durata la gestazione del Jobs act, la riforma del lavoro targata Renzi.
Proposta dall’e-News dell’8 gennaio 2014, la riforma avrebbe dovuto essere attuata a marzo nelle intenzioni del premier. Ma l’approvazione definitiva del ddl di riforma del lavoro è via via slittata, fino al 3 dicembre 2013, data dell’approvazione definitiva in Senato, dopo il ricorso alla fiducia per la 32ma volta. Il Jobs act entrerà in vigore nel gennaio 2015.
Ma cosa prevede? Basterà a risollevare le sorti del mercato del lavoro italiano, che a ottobre 2014 registra una disoccupazione al 13,2%, valore record dal 1977?
AdviseOnly l’ha chiesto a Thomas Manfredi, economista presso il dipartimento di analisi del mercato e delle politiche del lavoro dell’OCSE, dove si occupa di analisi econometriche per l’Employment Outlook ed è co-autore di diversi working paper. Manfredi è anche blogger per Voxeu e per LinkTank, il think tank del quotidiano Linkiesta.
Cosa cambia con il Jobs act in 10 punti
- Introduzione del contratto a tutele crescenti per i neoassunti
- Riordino delle tipologie contrattuali e superamento delle collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co.)
- In caso di licenziamenti per motivi economici non sarà possibile il reintegro, contemplato solo per licenziamenti nulli, discriminatori e per alcune fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato
- Estensione del sussidio di disoccupazione (Aspi) anche ai co.co.co. e unificazione di Aspi e mini-Aspi in un sussidio universale di disoccupazione;
- Stanziamento di maggiori risorse per gli ammortizzatori sociali, per un totale di 2,9 miliardi di euro
- Possibilità di controllo a distanza del lavoratore attraverso gli impianti e gli strumenti di lavoro
- Eliminazione della cassa integrazione in caso di cessazione definitiva dell’attività aziendale
- Adozione di misure per favorire la conciliazione del lavoro con la vita familiare, come l’estensione dell’indennità di maternità a tutte le categorie di lavoratrici
- Istituzione di un’agenzia nazionale per l’occupazione, che punta a semplificare e razionalizzare le procedure di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro
- Nuova disciplina delle mansioni in caso di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale
L’opinione di Thomas Manfredi
Quali sono i principali problemi del mercato del lavoro italiano?
Alla luce degli studi economici, esistono vari problemi.
Il problema di base del mercato del lavoro italiano è la qualità del capitale umano. Le indagini Pisa-Ocse sul livello di capacità e competenze della popolazione adulta dimostrano che l’Italia, tra i paesi Ocse, è ultima per capacità lettura e penultima per quelle matematiche.
Questo nostro problema strutturale non ha nulla a che vedere con le regole: dipende dalle nostre scuole.
L’Italia inoltre ha altri due problemi legati al funzionamento del mercato del lavoro: la sua dualità e la contrattazione collettiva. Il mercato del lavoro italiano è duale perché la maggior parte della flessibilità dei rapporti contrattuali purtroppo ricade sui nuovi entranti, privi di tutele. Per questo i giovani fino a tarda età (35-40 anni) passano da un contratto temporaneo all’altro senza una stabilità, non tanto contrattuale, quanto di reddito e di formazione. Su quest’ultimo punto, si nota che gli imprenditori che si affidano su questi contratti, sono poco incentivati a offrire formazione al personale. Questo ha ricadute negative sulla produttività del lavoro. Insomma: ci sono i “troppo tutelati” (gli insider, già ben inseriti nel mercato del lavoro) e i nuovi entranti (outsider), poco o nulla tutelati.
Anche la contrattazione collettiva è fonte di criticità. Quando le imprese sono soggette a uno shock di domanda o di tecnologia, hanno difficoltà a variare i salari, perché questi sono legati al sistema di contrattazione collettiva settoriale molto rigida, dove i contratti non sono rinnovati per un lungo arco di tempo e i minimi salariali sono fissati a livello nazionale. Per questo motivo, il salario al Sud è più alto rispetto a quello che permetterebbe un assorbimento della disoccupazione. Infatti, i dati ci confermano il gap di disoccupazione tra Sud e Nord. Quando ci si trova davanti a shock di domanda, come quello che abbiamo appena vissuto con la Grande Recessione del 2008, servirebbe invece più flessibilità. In Italia, al contrario, il prezzo del lavoro oggi corrisponde a quello di qualche anno fa e non può essere cambiato, da parte loro le imprese in difficoltà non possono star dietro al salario minimo fissato dai contratti collettivi e così tendono a licenziare o a lasciar decadere i contratti a tempo determinato. In questo modo, l’aggiustamento allo shock avviene dal punto di vista esclusivamente quantitativo anziché salariale, rendendo il mercato del lavoro distorto.
In che misura il Jobs Act cerca di risolvere questi problemi? E cosa resta ancora da fare?
Da un lato, il Jobs act cerca di risolvere il problema della dualità del mercato del lavoro. Dall’altro, non è integrato a quella che avrebbe dovuto essere la vera riforma: quella della scuola, che potrebbe risolvere il problema della bassa qualità del capitale umano in Italia.
Un altro problema che non è stato affrontato è la contrattazione collettiva, che Renzi ha dichiarato di voler sistemare in futuro. Ci vorrebbe, forse, un maggiore utilizzo della contrattazione di secondo livello. Soprattutto nei momenti di crisi, bisognerebbe imparare dalla Germania, dove le imprese in difficoltà possono uscire dal sistema di contratti collettivi e discutere con i lavoratori le condizioni salariali e di lavoro necessarie per andare avanti. È un po’ il modello Marchionne.
Resta ancora sul tavolo una riforma delle professioni: gli ordini professionali sono delle gilde medievali. La Francia si sta muovendo verso una maggiore liberalizzazione degli ordini professionali: ci vuole una bella svolta in tal senso anche in Italia. Un cambio di passo che, purtroppo, manca nel Jobs Act, dove le partite Iva e i professionisti non sono nemmeno considerati, sebbene siano due gruppi molto numerosi in Italia.
In generale, la filosofia seguita dal Jobs act è molto sbilanciata: troppa enfasi sui contratti di lavoro subordinato. È stato fatto un passo avanti, ma non è la riforma globale che ci aspettavamo. Per questo, credo, in futuro si interverrà ancora nella materia.
Inoltre, la miriade di interventi consecutivi susseguitisi sul mercato del lavoro italiano nel passato sono deleteri perché alle imprese serve stabilità delle regole. Siamo giunti al punto che in Italia facciamo una riforma del mercato del lavoro all’anno! Non è sostenibile. Pensiamo a come è andata nel 2014: è arrivato il Governo Renzi e ha varato il decreto Poletti di liberalizzazione dei contratti a tempo determinato, che è andato a cozzare contro la logica del Jobs act. Gli imprenditori, se percepiscono poca chiarezza d’intenti non assumono, oppure stipulano contratti a brevissima scadenza per vedere come si evolverà la situazione. E così, i giovani passano da un lavoro precario all’altro: molte famiglie italiane vivono sulla loro pelle questo problema.
A proposito di disoccupazione e precariato, c’è chi contesta l’idea di rendere più flessibile il mercato del lavoro in una situazione di crisi economica italiana. Lei cosa ne pensa?
Capisco l’obiezione. Il Jobs act, nella sua incompletezza, prende in considerazione questo aspetto perché cerca di riformare anche le tutele passive come i sussidi di disoccupazione in un’ottica un po’ più universalistica. In Italia abbiamo sistema di tutele frammentato, diversamente dalla maggior parte dei Paesi europei.
Da questo punto di vista, l’impostazione del Jobs act è positiva perché cerca di eliminare la garanzia reale dell’articolo 18 per introdurre delle garanzie monetarie certe. L’obiettivo è evitare che un imprenditore si trovi con l’incertezza di non sapere se poter licenziare qualcuno perché non sa quale sarà la sentenza del giudice in materia. Nel momento in cui il datore di lavoro o il dipendente decide di rompere il contratto, il Jobs act dà l’incentivo alle parti contraenti di trovare una soluzione senza ricorrere al giudice. Il giudizio diventa così di ultima istanza e serve a dirimere solo i casi più controversi. Da questo punto di vista, il Jobs act è da plaudire.
Io ho visto diverse bozze e, devo dire, mi lascia perplesso e preoccupato il fatto che la compensazione monetaria per i licenziamenti economici o disciplinari sia molto più alta rispetto alla media Ocse. Si parla di un mese o un mese e mezzo di salario per ogni anno di permanenza nell’impresa: lo stesso livello della Francia e della Germania.
Alla luce della portata del Jobs Act, quanto è razionale la polemica sull’art. 18 che imperversa sui media?
In Italia le questioni sono risolte spesso con farse, purtroppo. Credo che queste proteste per l’articolo 18 siano esagerate: i sindacati hanno dato troppa importanza a questo aspetto. Del resto, come ho detto prima, le tutele monetarie che sostituiscono quelle reali dell’articolo 18 sono abbastanza alte. Alla luce di ciò temo solo che, per eliminare la garanzia reale dell’articolo 18, rischiamo di esagerare con la garanzia monetaria.
Ma bisogna aspettare i primi decreti attuativi (da varare entro il giugno 2015, ndr) per capire bene dove si posizionerà l’Italia rispetto agli altri Paesi Ocse e come sarà in generale il nuovo mercato del lavoro.
kappaxx / Dicembre 5, 2014
insomma, fino alla pubblicazione dei decreti attuativi (campa cavallo) il dibattito sul jobs act è fuffa
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Gianni / Dicembre 6, 2014
Jobs Act è la solita montagna di caz**te Italiche che ha partorito un topoloino.
Senza decreti attuativi ha valore pari a zero virgola.
Gli imprenditori intanto fino a Giugno 2015 cosa fanno? Non assumono nessuno perché metti poi che i decreti attuativi in sostanza reintroducano una sorta di articolo 18.
Chi ha la possibilità di trovare lavoro all’estero fugga finché ancora in tempo.
L’Italia deve solo pregare che vi sia ripresa globale per attacarsi a traino come al solito al solo scopo di sopravvivenza!
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