Il Pil misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta
Bob Kennedy
Dite la verità: ci siete rimasti male. Il dato sul Pil italiano diffuso ieri non ha solo deluso gli analisti, che si aspettavano una crescita dello 0,2% dell’economia italiana nel primo trimestre di quest’anno, ma anche gli italiani. Si confidava in una ripresa, seppur debole e fragile, e invece no: dopo il +0,1% segnato a fine 2013, eccoci scendere ancora sotto zero, con un -0,1%. Va anche peggio per il Pil su base annua e in valore assoluto.
Ma se può consolarvi, sappiate il Pil non basta a misurare davvero il benessere di un Paese. Ecco perché.
I limiti del Pil
Tecnicamente, il Prodotto interno lordo (Pil) secondo l’Istat “corrisponde alla produzione totale di beni e servizi dell’economia, diminuita dei consumi intermedi e aumentata dell’Iva gravante e delle imposte indirette sulle importazioni. È altresì, pari alla somma dei valori aggiunti ai prezzi di mercato delle varie branche di attività economica, aumentata dell’Iva e delle imposte indirette sulle importazioni, al netto dei servizi di intermediazione finanziaria indirettamente misurati (Sifim)”.
Ma è un indicatore “fuorviante” a detta di alcuni (Edward Jung, Responsabile Tecnologia in Intellectual Ventures) e incompleto secondo altri, tra cui l’ONU e la Commissione Ue.
Per questo, nel 1993, l’ONU ha iniziato a utilizzare l’Indice di Sviluppo Umano (HDI), elaborato a fine anni Ottanta dal Programma per le Nazioni Unite dello Sviluppo (UNPD). Anche la Commissione europea ha cercato di contabilizzare lo sviluppo umano sia in termini economici, sia in termini sociali lanciando nel 2007 l’iniziativa “Beyond GDP” nel 2007, insieme a Parlamento Europeo, OCSE, Club di Roma e WWF. Nella comunicazione del 2010 Non solo PIL – Misurare il progresso in un mondo in cambiamento, la Commissione UE ha suggerito di utilizzare gli indicatori EQLS (European Quality Life Survey – EurLIFE database) come base nell’ulteriore sviluppo di indici sia qualitativi che quantitativi.
In conclusione, il Pil è piuttosto reticente sul benessere di un Paese. Italia compresa.
L’insostenibile reticenza del Pil italiano
L’11 marzo 2013 l’Istat e il Cnel (Consiglio nazionale per l’economia e il lavoro, che Renzi vuole abolire) hanno elaborato congiuntamente il primo “Rapporto Bes” (Benessere equo e sostenibile). Questo documento ci racconta tutto quello che il Pil si è dimenticato di dirci circa il benessere dell’Italia.
Vediamolo nell’infografica e poi scendiamo nel dettaglio di ogni “dimenticanza” del Pil.
1. Salute
Gli italiani vivono sempre più a lungo: siamo al terzo posto al mondo per aspettativa di vita secondo il World Health Statistics 2014 dell’Oms. Inoltre, il tasso di mortalità infantile da noi è stabilmente tra i più bassi d’Europa (34 morti ogni 10mila nati vivi nel 2009); il dato è peraltro inferiore sia alla media Ue, sia agli Usa.
Sulla salute influisce il fattore istruzione: i meno istruiti sono più sedentari, più soggetti a malattie da anziani, all’obesità e a una dieta meno sana. Svantaggiato è anche chi vive nel Sud Italia per eccesso di peso, sedentarietà e consumo di frutta e verdura.
2. Istruzione
Siamo dietro all’Europa per numero di laureati e diplomati e partecipazione alla formazione continua. Battiamo l’Ue solo per tasso di abbandoni scolastici.
Un’altra brutta notizia riguarda il tasso di NEET e di abbandoni scolastici: entrambi sono fortemente influenzati dal titolo di studio e dalla professione più o meno elevata dei genitori. Questo significa che la scuola italiana non riesce a svolgere una funzione di riequilibrio sociale per i meritevoli provenienti da famiglie meno abbienti.
3. Lavoro
Come sapete, il capitale umano più sottoutilizzato in Italia è quello di donne e giovani. Le prime infatti scontano un grave ritardo in termini di occupazione rispetto alla media Ue: sia per l’alta disoccupazione, che per il basso tasso di partecipazione. Pesa il fattore figli, che costituisce uno svantaggio per le donne sul lavoro, ma meno per quelle laureate oppure over 34. Con la crisi, però, è sceso anche il tasso di occupazione maschile, riducendo il gender gap nell’accesso al lavoro, mentre si sono accentuate le differenze territoriali e generazionali.
Altri problemi sono basse retribuzioni, l’instabilità del lavoro, il mismatch tra lavoro e competenze possedute. In tal senso, gli stranieri sono quelli con maggiori qualifiche (in termini di istruzione) rispetto al lavoro svolto. Clicca per approfondire le condizioni di lavoro in Italia.
4. Povertà e diseguaglianze
Solo quattro Paesi dell’Eurozona presentano maggiori diseguaglianze di reddito rispetto all’Italia: Spagna, Grecia, Portogallo e Uk. Dal 2004, la concentrazione della ricchezza è tornata a crescere e, con essa, anche la quota di ricchezza posseduta dal 10% più ricco della popolazione. Inoltre da noi il rischio povertà è più elevato della media Ue e aumenta la quota di famiglie in grave deprivazione, che ha coinvolto anche persone con redditi lievemente superiori alla media. Le donne, soprattutto le più anziane, i giovani e i residenti nel Mezzogiorno, soffrono più di povertà e deprivazione.
5. Ricerca e innovazione
Il numero di richieste di brevetto è diminuito dal 2004 al 2010, ma è aumentata la propensione all’innovazione delle imprese (misurata sia in termini di prodotti, processi, marketing e organizzazione). Da notare il ruolo trainante del Nord-Ovest per la ricerca, a cui spetta il 35,7% della spesa complessiva nazionale, le regioni che spiccano sono Trento, Piemonte e Lazio. Ma abbiamo anche parecchi punti deboli: siamo agli ultimi posti rispetto al resto d’Europa per numero di occupati nel settore hi-tech e nelle professioni tecnico-scientifiche e non riusciamo a centrare l’obiettivo Ue di un finanziamento privato di due terzi della ricerca.
Considerando infine la capacità di usare Internet, sebbene a livello nazionale siamo in linea con l’Ue, nel 2012 esisteva un divario Nord-Sud del 14,6% e uno a favore degli uomini che sfiorava del 10%. Un altro divario è legato al livello di istruzione: naviga in rete settimanalmente la quasi totalità dei giovani laureati (il 93,3%) contro il 48,4% di coloro che hanno al massimo la licenza media.
6. Relazioni sociali
I dati Istat ci dicono che nel Sud Italia le relazioni familiari sono più deboli e si registra anche una minore attività della rete di aiuti gratuiti a persone non conviventi e una minore soddisfazione per quella di amici. Nel 2012, il 23,5% della popolazione è stata coinvolta in attività di partecipazione sociale (escluso il volontariato), un dato inferiore a quello registrato nel 2005 (25,7%). Si tratta soprattutto di partecipazione in associazioni di tipo ricreativo, sportivo, culturale e civico, meno di associazionismo politico.
Inoltre gli italiani credono fortemente nell’adagio popolare per cui “Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”: nel 2012, solo il 20% degli over 14 riteneva che gran parte della gente sia degna di fiducia, contro una media Ocse del 33%.
7. Politica e istituzioni
Gli italiani si fidano poco dei partiti, del Parlamento, delle istituzioni locali e della giustizia. Ma si fidano di più di Forze dell’Ordine e Vigili del Fuoco. Ciò nonostante, la partecipazione alla vita politica è stabile. Le differenze di partecipazione a favore degli uomini si azzerano nei giovanissimi, che hanno comunque il livello di partecipazione più basso insieme agli over 65.
8. Benessere soggettivo
Scomponendo i risultati per età, sono i giovani a essere i più soddisfatti della loro vita. I residenti nel Mezzogiorno sono meno soddisfatti, soprattutto per le prospettive future e per il tempo libero.
9. Patrimonio culturale e paesaggio
L’Italia è al primo posto nel mondo per siti “patrimonio dell’umanità”. Nel 2012, i beni censiti nel patrimonio culturale superavano le 100mila unità. Ma c’è una grande sproporzione regionale nelle spese per la gestione del patrimonio culturale: si passa dai quasi 30 euro pro-capite di Trento ai meno di 5 del Mezzogiorno, dove c’è anche minore attenzione nella conservazione degli edifici storici e un maggiore abusivismo edilizio. E i suoi residenti ne sono ben consapevoli: oltre un quarto ritiene degradato il paesaggio del luogo dove vive.
10. Qualità dei servizi
In Italia fra il 2003 e il 2011 sono aumentati i servizi comunali per l’infanzia, ma il loro livello resta comunque basso, soprattutto al Sud. Lo stesso discorso vale per l’assistenza domiciliare integrata (Adil), alternativa al ricovero in ospedale. Sul fronte infrastrutture, il trasporto pubblico locale è meno presente sotto Roma, dove si contano anche parecchi ritardi infrastrutturali, tant’è che oltre il 10% delle persone trova difficile raggiungere almeno tre dei tredici servizi essenziali monitorati dall’Istat.
Per quanto riguarda le public utility, è ancora troppo alta la dispersione di acqua (40%), di cui oltre il 32% è attribuibile a inefficienze della rete. Infine, sul fronte del servizio di smaltimento dei rifiuti, utilizziamo ancora troppo le discariche, mentre a livello europeo questa pratica è residuale.
Insomma, va bene monitorare il Pil. Ma ricordiamoci che, preso da solo, finisce per diventare la “siepe che da tanta parte / Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Mentre per cogliere davvero il benessere di un Paese, bisogna saper guardare oltre. Sebbene, anche allargando la definizione di benessere, il risultato per l’Italia non cambia granchè.
Gianni / Maggio 16, 2014
“Il PIL dell’Italia cala, ma tutto il resto è un ecatombe!”, era il titolo giusto per questo articolo. E poi che ci sei andata con mano leggera.
“trasporto pubblico locale è meno presente sotto Roma”, bellissima, era più giusto scrivere: “trasporto pubblico (bus, metro, tram) da paese del TERZO MONDO con in più l’aggravante di taxisti costosi, ah, e inoltre peggiora pure sotto Roma”.
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