Ci risiamo: Elon Musk è tornato a scuotere i mercati a suon di tweet. Come spesso accaduto anche in passato, ad andarci di mezzo sono le azioni di Tesla, il produttore di auto elettriche fondato dallo stesso Musk (ma è successo anche che l’eccentrico imprenditore mandasse in tilt titoli che non c’entravano niente con il suo impero, vedere per credere).
Questa volta, Musk ha usato il suo social network preferito per chiedere ai suoi 62,8 milioni di follower se dovesse o meno vendere il 10% della sua quota in Tesla, aggiungendo che, qualunque fosse stato l’esito del sondaggio, vi si sarebbe attenuto.
Ebbene, quasi il 58% dei 3,5 milioni di utenti che hanno partecipato ha risposto che sì, Musk dovrebbe vendere. Prevedibilmente, le azioni Tesla sono crollate in Borsa, arrivando a perdere quasi 200 miliardi di dollari di capitalizzazione in quelli che sono stati i due giorni peggiori degli ultimi 14 mesi.
E non finisce qui: ad appesantire ulteriormente la situazione ci si è messa la notizia che il fratello di Elon Musk, Kimbal, avrebbe venduto azioni Tesla (per circa 109 milioni di dollari, secondo Bloomberg) già la scorsa settimana, prima del lancio del sondaggio.
Per finire, è arrivato l’affondo di Michael Burry – l’investitore reso famoso dal film “The Big Short” – che accusa Elon Musk di voler vendere azioni per coprire debiti personali. Insomma, la questione è decisamente spinosa.
Ma perché Musk ha lanciato il sondaggio?
La mossa di Musk è avvenuta in aperta polemica con una proposta avanzata dal presidente della Commissione Finanze al Senato, Ron Wyden, che prevede l’introduzione di una nuova tassa sulle plusvalenze (“unrealized gains”) maturate dai beni quotati in Borsa dei cittadini più ricchi d’America, con patrimoni di oltre un miliardo di dollari.
Una tassa che, chiaramente, interesserebbe in prima persona lo stesso Musk, seduto su un tesoretto di quasi 300 miliardi di dollari grazie alle quote in Tesla e Space-X. Stando a Forbes e al Bloomberg Billionaires Index, nonostante le perdite degli ultimi giorni, Musk è tuttora l’uomo più ricco al mondo.
Tra l’altro, se dovesse essere approvata, la legge comporterebbe il pagamento delle tasse nel caso in cui le azioni aumentassero di valore: non sarebbe necessaria quindi la vendita del capitale azionario. Ed è proprio questo il punto su cui Musk ha avuto da ridire: il numero uno di Tesla ha infatti spiegato, sempre su Twitter: “io non incasso uno stipendio o bonus di qualsiasi tipo. Ho solo azioni, quindi l’unico modo che ho per poter pagare tasse è vendere azioni”.
Cosa succederà adesso?
Ora, Musk possiede circa il 17% di Tesla, per un controvalore di circa 208 miliardi di dollari (sulla base dei prezzi alla chiusura di venerdì 5 novembre).
Se davvero decidesse di vendere il 10% della sua quota (cioè il 10% del 17%) in un colpo solo, sicuramente il prezzo delle azioni ne risentirebbe. Ma la probabilità che ciò avvenga è piuttosto bassa, si legge in un articolo del Guardian – a meno che Musk non si sia messo in testa di arrivare davvero ai ferri corti con le autorità di vigilanza (e chi siamo noi per escluderlo).
In queste situazioni, solitamente, i top manager delle aziende usano la strategia della cosiddetta “intermediazione cieca”, in cui le azioni vengono vendute a loro nome a piccoli lotti, poco per volta: è un escamotage per evitare l’accusa di aver beneficiato di informazioni riservate sulla tempistica della vendita.
A maggior ragione, in questo caso Musk potrebbe trovarsi in difficoltà se vendesse tutto insieme, perché annunciando su Twitter la sua intenzione di vendere ha già manipolato il prezzo al ribasso. Vero è che l’imprenditore non sembra preoccuparsi molto delle ire dell’authority di Borsa.
Sec and the City: i precedenti di Musk
Al netto della polemica in sé, infatti, a fare notizia è stato ovviamente il modo in cui Musk ha annunciato la sua decisione. Sì, perché forse non tutti sanno che Musk è già stato bacchettato più di una volta dalla Sec (Securities and Exchange Commission, l’equivalente della nostra Consob negli Stati Uniti) per aver influenzato i mercati con i suoi tweet.
Addirittura, nel 2018 aveva mandato in orbita le quotazioni di Tesla twittando che avrebbe privatizzato la società a 420 dollari per azione (cosa che poi evidentemente non è successa): la Sec in quell’occasione aveva imposto una sanzione di 20 milioni di dollari ciascuno a Tesla e Musk, spingendo il patron della società a dimettersi dalla carica di presidente.
Inoltre, le due parti si sono accordate sull’utilizzo di Twitter da parte di Musk: ogni “cinguettio” riguardante Tesla che vertesse su argomenti potenzialmente “sensibili” (tipicamente di natura finanziaria) avrebbe dovuto essere pre-approvato da un legale della società.
Successivamente la Sec ha accusato più volte Musk di aver violato i termini dell’accordo. E l’ultimo atto di questa saga, quello che vi abbiamo appena raccontato, non sembra promettere niente di diverso.