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Parliamo di elezioni USA con Francesco Daveri: Clinton e Trump a confronto

I programmi di entrambi i candidati alla Casa Bianca prevedono misure di stimolo fiscale, ma ognuno declina la riforma a suo modo. E, in ogni caso, i problemi sollevati dal Trumpismo non finiranno certo con l’eventuale vittoria di Hillary Clinton.

A poco meno di un mese dalle elezioni presidenziali USA, abbiamo provato a mettere a confronto – soprattutto dal punto di vista economico e fiscale – i programmi dei due candidati, la democratica Hillary Clinton e il repubblicano Donald Trump, interrogandoci sullo stato di salute del Paese che erediterà il successore di Barack Obama. Per farlo, ci siamo avvalsi dell’aiuto di Francesco Daveri (nella foto), professore di Politica economica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, che abbiamo intercettato a margine di un incontro organizzato dall’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale) dedicato proprio a “L’agenda economica dei candidati”, e realizzato in collaborazione con il Corriere della Sera.

Partiamo da una considerazione: le misure dei due candidati non sono mai state così “socialiste” come lo sono ora: sia Hillary Clinton che Donald Trump hanno infatti incluso nei loro programmi parecchi dei 12 punti di Bernie Sanders, il candidato democratico più socialista di tutti.

DAVERI

Professor Daveri, quali sono le differenze più evidenti tra i programmi dei due candidati alle presidenziali USA, in particolare per quanto riguarda la riforma fiscale? Quale dei due le sembra più credibile?

Dal punto di vista fiscale hanno scelto entrambi una strategia tradizionale, in linea con i principi dei rispettivi partiti di appartenenza, quello repubblicano per Donald Trump e quello democratico per Hillary Clinton.

Nello specifico, il programma di Trump punta molto sul taglio dell’imposta sul reddito delle società, che dovrebbe scendere dal 35% al 15%, e sulla riduzione progressiva della tassazione sul reddito delle famiglie, per cui è prevista una diminuzione del numero degli scaglioni, con l’obiettivo di rendere il sistema più “piatto”. Una ricetta che ricalca la filosofia repubblicana, almeno dal punto di vista fiscale: per il resto Trump non ha molti punti di contatto con il suo partito – e i recenti scontri ne sono la dimostrazione.

Per quanto riguarda Hillary Clinton, la sua ricetta fiscale è più improntata all’aumento degli investimenti, soprattutto infrastrutturali, ma anche a livello di spesa sociale a favore delle categorie più vulnerabili, in linea con lo spirito democratico (i dettagli su questo fronte però non sono ancora stati chiaramente esplicitati). Tutte queste spese verrebbero finanziate con un aumento dell’aliquota di imposta sui ricchi, andando a concentrarsi in particolare sull’1% della popolazione con la base imponibile più elevata.

Di spesa pubblica parla invece poco o niente il programma di Trump, il quale probabilmente spera che la riduzione delle imposte sia sufficiente per aumentare la base FRANCESCO-DAVERIimponibile e scongiurare un ulteriore aumento del debito. Mettendo le due strategie a confronto si può evincere dunque che nel caso di una vittoria del candidato repubblicano si assisterebbe a un aumento maggiore del livello di debito pubblico – di quanto è difficile a dirsi.

Dopo anni di politiche monetarie accomodanti è davvero arrivato il momento di tornare verso la normalità? La FED alzerà i tassi d’interesse dopo le elezioni?

Veniamo da anni di tassi d’interesse vicini o addirittura sotto lo zero in Europa e l’intervento delle banche centrali a sostegno dei mercati finanziari è ancora oggi significativo. Anche per gli USA la domanda è: quando la FED aumenterà i tassi? Io credo che il processo non sarà rapido e dubito che un ritocco ci sarà in occasione del meeting di dicembre, perché non vedo alcun cambiamento in grado di spostare le maggioranze all’interno del FOMC.

E questo sarebbe un bene o un male?

Non è detto che aumentare i tassi in un momento in cui il mondo è pesantemente indebitato sia la strategia migliore: il rischio è di causare un crash consistente, specialmente se il debito è denominato a tassi variabili. Un altro effetto che si sta già manifestando, ma che potrebbe acuirsi, è l’apprezzamento del dollaro, che a sua volta avrebbe un impatto negativo sul saldo della bilancia commerciale USA, provocando un aumento delle importazioni e un calo delle esportazioni. Non solo. L’apprezzamento del dollaro sarebbe anche associato a una risposta negativa delle Borse, perché le aziende USA vedrebbero scendere i profitti realizzati all’estero per effetto della conversione in una valuta domestica forte. Per tirare le fila del discorso, non credo sia ancora arrivato il momento di mettere mano ai tassi. Questo però non significa che non ci sia bisogno di implementare le riforme strutturali auspicate da Hillary Clinton tramite un aumento della spesa pubblica.

Anche per l’Europa è arrivato il momento di attivare nuove politiche fiscali?

Purtroppo non esistono gli Stati Uniti d’Europa, per cui penso che saranno come al solito gli USA a trascinare il resto del mondo: non mi aspetto un colpo di reni del Vecchio Continente che ha già le sue difficoltà interne, prima tra tutte la definizione dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione.

Donald  Trump insiste nel voler rimettere mano ad una serie di trattati commerciali e continua a mettere in discussione la globalizzazione: ma il protezionismo è la giusta soluzione per l’elevato livello di disuguaglianza che affligge il Paese?

In realtà quello del protezionismo è un punto comune tra i programmi dei due candidati, e questo perché l’elettorato USA tende a identificare nella creazione di posti di lavoro all’estero la causa di una ripresa troppo anemica del proprio Paese. Certo, Donald Trump è molto esplicito nel dire che vuole rinnegare il NAFTA (North American Free Trade Agreement, accordo nordamericano per il libero scambio), mentre Hillary Clinton non lo dice apertamente, ma di sicuro è diventata molto più cauta nell’intenzione di firmare trattati, per esempio il TPP (accordo di libero scambio transpacifico, che esclude la Cina) e il TTIP (Trattato di libero scambio transatlantico). Io personalmente sono a favore degli accordi commerciali di libero scambio tra macro aree, perché penso vadano nella direzione di un ampliamento dei mercati: in loro assenza è difficile immaginare spazi per creare nuova ricchezza. Inoltre sono convinto che solo con il libero scambio l’Europa possa essere in grado di mantenere un ruolo centrale, senza farsi rubare la scena da America e Asia.

Come muoversi per ridurre le disuguaglianze?

La crescita delle disuguaglianze è un problema mondiale, non solo degli USA, e deriva dal fatto che il sistema dell’istruzione nel suo complesso non riesce – e non può riuscire – a tenere il passo con il progresso tecnologico: non è colpa del mercato, ma, per così dire, delle “macchine” che si evolvono con una rapidità inafferrabile. Non è un problema di facile soluzione, i cittadini chiedono almeno di avere accesso alle stesse opportunità formative, se non agli stessi redditi dopo. Ma visto che nessuno vuole bloccare il progresso tecnologico, non resta che incrementare gli sforzi – e mi sembra che il programma della Clinton lo preveda – per migliorare l’istruzione e rendere l’ingresso al College accessibile a tutti, senza bisogno di indebitarsi a vita. In definitiva, credo che l’unica ricetta per affrontare il problema della disuguaglianza sia un maggiore coinvolgimento dello Stato nel sostegno all’istruzione.

Che Paese eredita il prossimo Presidente degli Stati Uniti?

Il prossimo Presidente USA eredita un Paese che cresce e non è più avviluppato nella crisi, a differenza di quello trovato a suo tempo da Barack Obama. E c’è da dire che se gli Stati Uniti hanno superato la crisi il merito è anche delle politiche adottate proprio dall’attuale Presidente, che ha creato deficit: basti pensare che a un certo punto il deficit degli USA si attestava al 12-13% del PIL, un livello impensabile in Europa. Ma il merito è stato anche della FED, che ha adottato politiche estremamente espansive sostenendo i mercati finanziari. Ovviamente il prossimo Presidente riceverà in eredità anche alcuni problemi irrisolti. C’è per esempio la necessità di capire come uscire da questa situazione di debito elevato senza generare una nuova crisi: un po’ di inflazione farebbe comodo, ma non ci sono le condizioni per generarla, e senza inflazione ridurre il debito diventa complicato. Inoltre restano alcune problematiche sul fronte della sanità, nonostante la riforma Obama Care: di fatto gli USA spendono tantissimo in sanità (se sommiamo pubblico e privato), ma in cambio ottengono un’aspettativa di vita simile a quella di Paesi che spendono molto meno: questo suggerisce che la spesa sanitaria sia poco efficace.


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