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#LettoPerVoi: recensione de “Il Capitale nel XXI secolo” di Thomas Piketty

Dal 2014 il tema delle crescenti disuguaglianze in Occidente tiene banco nel dibattito socioeconomico, cui ha contribuito anche AdviseOnly (vedi gli approfondimenti sulle 5 disuguaglianze che affliggono l’Italia e sulle loro motivazioni).

La miccia che ha innescato la discussione ha un nome e un cognome: Thomas Piketty. Tutto iniziò nel marzo 2014, quando fu pubblicata la traduzione inglese del suo saggio “Le Capital au XXIe siècle”. Grazie a questo libro, Piketty è diventato per alcuni un “economista-rockstar” (New York Magazine), per altri “il moderno Marx” (The Economist), per altri ancora l’autore delle “50 sfumature di grigio dei libri di economia” (The Guardian). Da ultimo, anche grazie al successo del libro, è stato nominato centennial professor presso l’International Inequalities Institute (III) alla London School of Economics.

Il suo saggio è stato tradotto in oltre 30 paesi e pubblicato in italiano nel settembre 2014 (“Il Capitale nel XXI secolo”, 2014, 952 p., Bompiani editore, disponibile in versione cartacea ed e-book).

Il libro

Nel volume, diviso in 4 parti, Piketty ripercorre dall’Ottocento a oggi l’evoluzione della disuguaglianza r > g, secondo cui il tasso di crescita del capitale (r) è superiore a quello di crescita (g), notando che questa disuguaglianza si sta ampliando nel XXI secolo. Questo implica che “il passato divora il futuro”: il tasso di crescita dei patrimoni ereditati dal passato aumenta più rapidamente della crescita di salari e produzione.

A livello sociale, finisce che i ricchi diventano sempre più ricchi accumulando patrimoni nel tempo, mentre i poveri non riusciranno a raggiungerli neppure facendo carriera. In altri termini: la disuguaglianza della proprietà da capitale sarà sempre più forte della disuguaglianza dei redditi da lavoro (gli stipendi).

Dopo questa lunga disamina storica ed economica, Piketty illustra la sua soluzione al problema, che risolverebbe anche la questione del debito pubblico: un’imposta mondiale sul capitale.

Cosa ne penso del libro

Il libro ha il merito di aver sollevato il velo a livello mondiale sul tema delle disuguaglianze, di cui non si è mai parlato tanto come nel 2014 e nel 2015 (per avere un’idea, si vedano Project Syndicate; Bruegel; lavoce.info; New York Times; The Economist; Financial Times). Proprio per questo, la testata britannica della City e la società di consulenza McKinsey & Co. hanno nominato il saggio di Piketty Business Book of the Year 2014. Anche se non bisogna dimenticare che uno dei motivi del successo del saggio sta anche nell’aver smascherato il sogno americano, come nota il Financial Times: l’autore accusa di essere un paese diseguale anche gli USA, che si sono sempre vantati di essere la patria dell’uomo che si fa da sé e del merito, contrariamente all’Europa.

Un altro aspetto positivo del saggio dell’economista francese è il linguaggio relativamente semplice e comprensibile utilizzato nel testo. Merito anche dei numerosi esempi tratti dal mondo del cinema (“Titanic”; “Gli Aristogatti”; “Django Unchained”), della letteratura (i romanzi di Jane Austen e Balzac) e di riferimenti a personaggi contemporanei (Liliane Bettencourt, Carlos Slim, Bill Gates). Del resto, l’intento dichiarato del libro è di essere accessibile sia a persone senza conoscenze economiche specifiche, sia ai ricercatori, cui sono rivolti i vari allegati tecnici online. Scrive l’autore a riguardo nell’ultima pagina del libro: “Tutti i cittadini dovrebbero interessarsi al denaro, alla sua misurazione, ai fatti e ai processi che lo riguardano. […] Il rifiuto della contabilità ha raramente giovato ai più poveri”.

A proposito di indigenti, Piketty è piuttosto manicheo nella sua analisi: parla solo di ricchi contro poveri, senza tenere in grande considerazione il ceto medio e le ripercussioni che ha avuto la crisi su di esso. Il suo è un libro sui, pardon: contro, i ricchi.

Un’altra obiezione che si può muovere all’analisi è la seguente: Piketty sembra essere convinto che l’iniquità fiscale generi diseguaglianze. E se accadesse il contrario? L’ipotesi non è presa in considerazione dall’autore.

Un altro punto debole del “Capitale nel XXI secolo” è il passaggio dalla realtà dei fatti all’utopia delle proposte, avanzate nell’ultima parte del libro. Piketty si rende conto che il sistema fiscale da lui proposto sia di difficile attuazione, ma celebra i vantaggi della sua proposta, mentre affronta meno gli svantaggi. Inoltre, nell’enfasi dialettica, mette troppa carne al fuoco trattando la crisi dell’euro e del debito pubblico dell’eurozona. Temi affrontati frettolosamente e che meriterebbero dei libri a parte (magari al di sotto delle 952 pagine del “Capitale nel XXI secolo”).

E qui arriviamo dritti-dritti all’ultimo demerito del libro: l’eccessiva lunghezza. Per questo c’è chi ironizza che tutti parlano di Piketty, ma nessuno l’abbia mai letto. Per esperienza diretta, vi dico che la il libro è impegnativo, ma mai noioso. Resta il fatto che il suo spessore scoraggia la lettura da parte della gente comune, che pure l’autore vorrebbe raggiungere. Su questo punto, vi dò un consiglio spassionato: non leggete il libro tutto d’un fiato, ma “rateizzatelo”. Per esempio, potreste leggerlo nell’arco di un anno in “4 rate”: una per sezione, di lunghezza compresa fra le 100 e le 300 pagine circa, che è grosso modo la lunghezza della maggior parte dei libri in circolazione. Poi prendetevi una pausa, o leggete altro.

In conclusione, malgrado Piketty non abbia il dono della sintesi, consiglio di trovare il coraggio di leggerlo a chi ancora non l’ha fatto.

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Ultimi commenti
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    In uno dei suoi ultimi lavori (Alvaredo, Atkinson, Piketty, Saez, 2013 “The top 1 percent in International and Historical Perspective”) Piketty insieme agli altri autori spiega come nel mondo della terza globalizzazione e della “controrivoluzione liberista” le aliquote marginali sui redditi più alti si siano ridotte. Tuttavia concentrando l’analisi sul top 1% dei redditi non ha tenuto in considerazione il fatto che il progresso tecnico, la globalizzazione sono interessanti ma non pienamente convincenti nello spiegare le diseguaglianze. La stagnazione dei salari rispetto al prodotto (in Italia, Stati Uniti, Giappone) a partire dagli anni ’80 a me sembra più da attribuire a scelte politiche di stampo liberista, all’avvento di Reagan e Thatcher alla deregolamentazione dei movimenti di capitale che ad un improvviso progresso. Non trovate?

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    complimenti per la Saipem

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    La realtà empirica mi pare ben diversa da quella riassunta nell’articolo sul capolavoro di questo Piketty. Senza andare in giro per il mondo i più ricchi d’Italia si son fatti tutti da soli, altro che capitale accumulato in generazioni (di sfruttatori immagino)! Basta ricordare Berlusconi, Benetton, Del Vecchio, Armani, Prada, Ferrero, Barilla, Ferrari, Merloni, Briatore, eccetere, eccetera. Primenti molti altri ricchi capitalisti sono scomparsi dagli elenchi e le loro fortune dissolte, cito Pirelli, tanto per fare un nome assai noto.
    Non sto inoltre a citarvi i miliardari cinesi dell’ultima ora, non ricchi ma straricchi (fate un breve giro su internet e rimarrete a bocca aperta).
    Questo ci dice che l’ascensore sociale funziona, se ci sono le condizioni per fare impresa, cosa resa sempre più difficile da cantastorie come Piketty e dai loro chierichetti. Molti vogliono invece fermare l’ascensore, aspirando a campare a sbafo sulle spalle degli altri. Invece di leggere l’ennesimo comunista il cui ricordo scomparirà come una scoreggia nello spazio, consiglio di studiare Ayn Rand.

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      concordo in pieno. Tempo fa lessi proprio un articolo che in pratica partiva dai tuoi spunti, ossia dal fatto che molte delle società più capitalizzate e degli uomini più ricchi di oggi, non erano nemmeno in presenti 20 anni fa. Paradossalmente sono le politiche attuali che forniscono liquidità al sistema, o meglio al sistema bancario (politiche chiaramente non liberiste) ad aver accentuato le disparità tra capitale e reddito. Chi ha capitali finanziari infatti ha visto salire il valore di bond e azioni senza alcun legame con l’economia reale. Concordo poi totalmente su Ayn Rand, autrice purtroppo sconosciuta in Italia (non a caso visto che predomina una cultura di caste e parassiti).

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