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La “medicina” orientale per curare la crisi economica europea

Mi è capitato in questi mesi di leggere alcuni articoli piuttosto critici sulla situazione italiana ed europea da parte di autorevoli osservatori asiatici. Anch’essi propongono una via d’uscita alla crisi del vecchio Continente; forse, però, è una medicina troppo amara.

Partiamo da un articolo di Andy Xie, economista cinese indipendente, che scrive in un articolo tradotto poi sul Corriere della Sera: la tesi è che gli investimenti esteri ed in particolar modo quelli cinesi, in Italia, non potrebbero configurarsi altrimenti che come “beneficenza”. I Paesi del Sud Europa e l’Italia in particolare non possono pensare di risolvere stabilmente i propri problemi senza:

  • un serio ridimensionamento del tenore di vita dei cittadini: gli Italiani si rifiutano di cedere parte dei privilegi da loro acquisiti, abituati a lavorare “poco” e a prediligere il valore del tempo libero rispetto alla domanda espressa dal mercato (nella fattispecie cita il caso della mancata liberalizzazione degli orari di apertura degli esercizi al dettaglio)
  • un seria riforma del mercato del lavoro: l’Italia dovrebbe dotarsi una deregulation coraggiosa e una riforma maggiormente indirizzata al mercato.

Siamo abituati a considerare alcune caratteristiche della nostra vita come irrinunciabili, delle conquiste. Guardando all’Italia con gli occhi a mandorla le nostre vite sono piene di privilegi che, tra l’altro, non possiamo più permetterci. La critica va anche oltre: secondo l’economista le leggi europee usano il paravento delle garanzie dei diritti dei lavoratori per impedire di lavorare di più a chi vorrebbe farlo.

C’è anche un’altra voce proveniente da Est che vorrei proporvi, anch’essa autorevole e assai critica. In un’intervista alla BBC, l’ottantaseienne ex primo ministro della Malesia Mahatir Mohamad– uomo che è riuscito a trasformare un Paese da una “sonnolenta ex colonia” a una delle più brillanti economie asiatiche – offre la sua visione sulla crisi che colpisce l’Europa. L’ intervista si apre così:

“Gli Occidentali hanno insegnato agli Orientali come gestire la loro economia per decenni mentre ora, mutate le condizioni relative, non possono più farlo.”

 Il giudizio dell’ex primo ministro malese è impietoso:

“l’Europa deve fronteggiare la realtà di una situazione economica deteriorata cui deve far fronte attraverso un ridimensionamento delle condizioni di vita dei suoi cittadini che devono prendere coscienza di essere più poveri e adeguare il loro tenore di vita”

“non basta stampare moneta… bisogna abbandonare l’illusione dell’economia di carta delle banche e ricostruire l’economia reale… I lavoratori europei sono overpagati e improduttivi. L’economia deve ricominciare ad essere produttiva e a competere secondo i dettami della domanda”.

È evidente che l’arroganza del “Vecchio mondo” ed in particolar modo dell’Europa non ci abbia attirato grandi simpatie in Oriente. Per anni abbiamo finto di non vedere che il baricentro del futuro prossimo andava spostandosi ad Est ed abbiamo continuato a dettare regole e a porci con un ottica un po’ colonialista nel processo di globalizzazione.

Al di là di un certo senso di rivalsa, che forse anima questi popoli, ricordiamo che dei periodi negativi li hanno già vissuti (e superati brillantemente). Ricordate la severa crisi asiatica del 1997? L’IMF impose durissime politiche di austerità ai Paesi coinvolti (tanto per dare un’idea le economie di Honk Kong, Singapore, Indonesia, Malesia, Filippine, Corea del Sud e Tailandia passarono da un tasso di crescita del 6,8% nel 1996 al -4,4% del 1998!).

Noi Occidentali, Europei e Italiani in particolar modo, qualcosa su cui riflettere ce l’abbiamo, basti pensare a come vivevano i nostri nonni, la generazione che ha  fatto il grande boom dell’Italia negli anni ’50 del XX secolo.

Credo inoltre che, la versione più spinta del capitalismo auspicato dai nostri amici Orientali – che solo ora si affacciano al benessere- sia stato proprio il fattore che ha innescato la spirale di crisi che stiamo vivendo.

Si apre, infine, un’altra questione degna di riflessione (e magari di approfondimento in un futuro post su questo blog): la significatività dell’aumento del PIL come misura della crescita e, indirettamente, della prosperità di un Paese.

Insomma è più corretto parlare di crescita o di sviluppo?

Posto che il PIL è certamente un ottimo indice, esso tuttavia presenta molti limiti e il dibattito sulla possibilità di utilizzare nuovi indici che rappresentino meglio il benessere di un Paese comincia ad allargarsi.

Leggete questo interessante articolo e osservate il grafico dell’Economist: come potete vedere non è per niente detto che il grado di “ricchezza” sia direttamente collegato al grado di “felicità” di una nazione.

D’altronde in una celebre battuta JFK diceva:

“…il PIL misura tutto, tranne quello che rende la vita degna di essere vissuta…”

 

Scritto da

È uno dei partner fondatori e Presidente di Advise Only. Laureata in Economia Politica presso l'Università Bocconi, è stata responsabile dell'area commerciale dell'asset management del gruppo Banca Leonardo, occupandosi della ristrutturazione dell'offerta dei prodotti di risparmio gestito. In precedenza ha accumulato significative esperienze dapprima presso l'area Fixed Income Sales & Trading di JP Morgan e poi come Managing Director in Goldman Sachs, area Structured Fixed Income, occupandosi di clientela istituzionale italiana. Ama lo sport (corsa e sci di fondo), i buoni libri e l'opera lirica.

Ultimo commento
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    per far ripartire l’italia non bisogna fare pubblicita tv radio meglio promoter e investire in altro LAVORO…..
    e la pubblicita’ che succhia miliardi di euro pensateci e spero che prendete visione economista.

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