Bisogna togliere il paese dalle mani dei soliti noti, quelli che vanno in tutti i salotti buoni a concludere gli affari di un capitalismo di relazione ormai trito e ritrito. Questa è la rivoluzione culturale che serve all’Italia: spalancare le finestre e fare entrare aria nuova
Questo l’appello del premier Renzi in un’intervista rilasciata al settimanale “Tempi” il 23 agosto 2014.
Ma sapete qual è stata la risposta italiana alla prosecuzione della prassi dei salotti buoni (troppo spesso con i divani sdruciti), fiancheggiati da una legislazione al servizio delle ex-grandi imprese?
Una norma che rende difficile fare impresa in modo razionale, efficiente, guardando al mercato e non ai propri interessi “di bottega”: la legge che introduce le azioni con diritto di voto plurimo. Ecco di che si tratta.
Come funzionano le azioni con voto plurimo
Il Decreto Competitività (D.L. 91/2014) ha introdotto misure di governance societaria tendente alla facilitazione della quotazione di società per azioni, permettendo l’emissione di azioni con diritto di voto maggiorato (doppio) se possedute per almeno 24 mesi (loyalty shares): azioni con diritto di voto plurimo per le società non quotate, azioni con voto maggiorato in sede di assemblea, per le società quotate. Alcune società quotate (Amplifon, Astaldi, Campari) hanno aderito alla opzione entro il 31 gennaio 2015, termine entro il quale la modifica statutaria era consentita con maggioranza semplice (dopo tale data, è richiesta una maggioranza qualificata).
Partiamo da un recente esempio: tramite Exor, la famiglia Agnelli controlla Fiat Chrysler Automobiles (FCA) con il 30% delle azioni, ma il suo potere di voto potrebbe salire al 46% grazie a un loyalty scheme, messo in atto al momento della fusione per premiare gli investitori di lungo termine. Lo schema prevede che gli azionisti che detengono le azioni per 3 anni abbiano 2 voti per ogni azione posseduta. Il motivo ufficiale dato da Fiat Chrysler alla SEC (la Consob americana) è il seguente: “Rendere più difficile agli azionisti di FCA il cambiamento del management o un interesse a controllare la società”. Una misura lecita al 100% e consentita dalla legge USA.
Le conseguenze del voto plurimo
Il voto plurimo consente agli azionisti di controllo il mantenimento della loro presa sulla società, sia già quotata, sia di imminente quotazione: un meccanismo, nel secondo caso, che risulta vantaggioso per le imprese a capitale familiare, che in caso di quotazione potrebbero raccogliere mezzi finanziari significativi senza perdere il controllo della società.
Con il voto plurimo, si consente a un socio (o gruppo di soci) che scendesse sotto la maggioranza del capitale, di mantenerne il controllo di fatto attraverso la previsione di poter contare, e quindi votare, con delle azioni che “pesano di più”. Con il voto plurimo, gli azionisti di minoranza di una società che adottasse tale principio, che in caso di aumento di capitale ci mettono soldi freschi e buoni, si trovano a vederli gestiti da un gruppo di comando che decide anche per loro. È la prosecuzione in peggio del salotto buono.
Il voto plurimo va contro la diffusione della quotazione, e quindi del mercato, per le imprese italiane: se la sottocapitalizzazione è uno dei peccati capitali delle imprese italiane, non si fa il bene del mercato prevedendo maggiori poteri (col voto plurimo) a chi non avesse fondi sufficienti per stare dietro all’aumento di capitale e che cercasse di mantenere lo stesso il controllo. La minaccia di un’acquisizione è salutare: mantiene efficiente il management; tiene sulle spine le minoranze di controllo. Il mercato dei capitali è più vivace se nessuno ha una golden share, o un suo equivalente. Il passaggio di proprietà attraverso un’OPA è più semplice se non c’è un’azionista che con il 20% del capitale sociale controlla il 40% dei voti in assemblea.
Le reazioni degli investitori istituzionali al voto multiplo
L’orientamento degli investitori istituzionali (fondi di investimento) è quello di votare contro le proposte di adozione del voto multiplo da parte delle società quotate italiane. Assogestioni ha diramato un comunicato nel dicembre 2014 dove si sottolinea un “evidente effetto di stabilizzare all’infinito il controllo di alcuni azionisti con la metà dello sforzo”. Non piace che sia stato concesso alle società già quotate di poter usufruire di un percorso facilitato, in assemblea ordinaria. Negli USA, solo 9 società quotate su 4.400 adottano il voto multiplo, come anche ad Hong Kong, Tokio, Sydney.
I fondi hanno un peso importante nell’azionariato (ma non nella governance) di importanti società italiane; alle ultime assemblee, valevano il 32,4% di Unicredit, il 25,6% di Atlantia, il 27,55% di Finmeccanica, il 28,6% di Eni, il 31,5% di Intesa Sanpaolo, il 27,8% di Telecom Italia. E molti sono dei big: BlackRock ha investito 18,9 miliardi di euro sul listino italiano, Vanguard 9,6 miliardi, Norges Bank 6,7 miliardi. Inoltre, i primi 12 fondi esteri pesano per 72,7 miliardi su una capitalizzazione totale di 483,4 miliardi, il 15%: non proprio bruscolini.
Da parte mia, sono dell’avviso che il principio “una azione, un voto” sia preferibile.