Il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato dazi commerciali su acciaio e alluminio importati da diversi Paesi – tra cui anche Unione Europea e Canada – pari rispettivamente al 10% e al 25%.
Ufficialmente, le ragioni di Trump sono riconducibili all’esigenza di proteggere la sicurezza nazionale, favorendo le merci prodotte all’interno dei propri confini per agevolare le aziende domestiche.
Europa e Canada da parte loro hanno risposto minacciando di imporre dei controdazi su diversi prodotti importati dagli USA a partire dal prossimo luglio.
Donald Trump alza la posta
A che gioco sta giocando? E dove ci porterà questa escalation di tensioni commerciali? Chiediamo aiuto a Francesco Rocchetti dell’ISPI, l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale.
“Una guerra commerciale non è nell’interesse di nessuno e sinceramente non penso ci arriveremo”, ha detto Rocchetti. “Trump sta alzando la posta nel tentativo di trattare con i singoli stati e arrivare ad accordi più vantaggiosi per lui”. Insomma, applica al commercio internazionale una logica da affarista, retaggio del suo passato nell’imprenditoria immobiliare.
“Il presidente USA adotta un approccio diverso da quello utilizzato in genere nei rapporti internazionali, nel senso che non tiene separati i diversi ambiti di discussione, ma mescola tutto: così la questione iraniana andrà a incrociarsi con quella del deficit commerciale e con il fatto che i Paesi europei contribuiscono troppo poco alla spesa militare. In questo modo spera di trovare supporto, da una parte o dall’altra”.
Del resto questo atteggiamento altrove ha pagato. Per esempio in Corea del Sud, uno dei Paesi colpiti (insieme al Giappone) fin dal primo round di dazi, mentre UE e Canada erano stati in un primo momento esentati.
A Seoul Trump ha ottenuto infatti negoziati one-to-one, arrivando a siglare un accordo-lampo in cui il Paese asiatico, pur di mantenere aperto il canale commerciale con gli USA, ha consentito una maggiore apertura del proprio mercato delle merci – in particolare auto – provenienti dagli Stati Uniti.
Trattative complesse con il Vecchio Continente
In Europa, però, il discorso è più complesso. “Tanto per cominciare, sulla carta l’Unione Europea è più potente degli Stati Uniti, anche se poi a livello negoziale è sicuramente più debole essendo l’Unione di più Stati e quindi meno compatta”, riflette Rocchetti.
“Però la politica commerciale è una competenza di Bruxelles, le singole nazioni non hanno margine di manovra, quindi per Trump sarà impossibile accedere a negoziati one-to-one. L’unica cosa su cui volendo si potrebbe negoziare con i singoli Stati sono gli investimenti, ma non è questo l’oggetto del contendere”.
Fatto sta che, nei paesi colpiti dai dazi, aziende e investitori che stanno investendo nel mercato transatlantico sono stati gettati in una fase di estrema incertezza, dal momento che non si sa come saranno regolate le relazioni tra UE e USA nel prossimo futuro. Questo significa che è impossibile fare un minimo di pianificazione sul medio/lungo termine: si naviga a vista.
Chi soffre di più per i dazi?
Attualmente in Europa il Paese più preoccupato da questa schermaglia commerciale è la Germania, che ha un elevato surplus commerciale verso gli Stati Uniti, dove esporta principalmente automobili.
“Berlino non a caso è la parte europea più dialogante”, osserva Rocchetti. “Per esempio, ora propone un nuovo TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) in versione light, che magari includa solo alcune tipologie di prodotti tutelandone altre.
Non è un caso che il cancelliere tedesco Angela Merkel abbia annunciato un impegno a incrementare la spesa militare all’interno della NATO: il contributo della Germania dovrebbe passare dall’attuale 1% del PIL al 2% entro il 2030.”
E l’Italia?
Il Belpaese tutto sommato ha un’esposizione limitata agli USA per quanto riguarda le esportazioni di acciaio e alluminio. “Parliamo di circa 720 milioni di euro annui, quindi una fetta di mercato relativamente piccola”, osserva Rocchetti.
“Diciamo che se i dazi riguardassero il settore agroalimentare saremmo molto più preoccupati. Il comparto siderurgico, invece, oltre a essere meno esposto al mercato americano ha anche già sofferto negli ultimi anni per diversi motivi – pensiamo all’acciaieria ILVA – quindi stiamo parlando di aziende che sono già di per sé poco profittevoli. Insomma non c’è molto da perdere”.
Amore e odio, il difficile rapporto con la Cina
E passiamo alla Cina, che è di fatto il più grande esportatore al mondo di acciaio e alluminio. Sui rapporti dell’America di Donald Trump con il Paese del Dragone aleggia un enorme punto interrogativo: “si è passati da una fase di luna di miele l’anno scorso a fasi più tese con scambi di attacchi ed escalation di tariffe e imposte a inizio 2018.
Ora si è aperto il dialogo e si sta cercando di trovare un accordo, ma il percorso è difficile: da una parte la Cina è mercato particolare, molto chiuso su se stesso, e questo non aiuta. Dall’altra parte Trump non ha una visione vicina a quella cinese, quindi trovare dei punti comuni non è immediato”, conclude Rocchetti.
Turbolenze in vista
In definitiva, una vera e propria guerra commerciale non sembra un rischio concreto: Europa, Canada e Asia tenteranno di evitarla e lo stesso Trump non ha alcun interesse ad arrivare a tanto.
Quel che è certo è che, in attesa di raggiungere un nuovo equilibrio, bisognerà attrezzarsi per una fase di elevata incertezza e di forte volatilità sui mercati finanziari. Allacciate le cinture.