Può un algoritmo aiutarci a prevedere – e magari evitare – una nuova epidemia su scala globale? L’idea appare decisamente allettante, specialmente a pensarci in questi giorni in cui istituzioni e medici sono “in trincea” a lottare contro la diffusione incontrollata di coronavirus1. Ma è realizzabile? Teoricamente sì, ma manca ancora l’applicazione pratica – almeno su larga scala. Quel che è certo è che svariate società che si occupano abitualmente di intelligenza artificiale2 ci stanno lavorando.
Qualche anno fa a cimentarsi in questa impresa titanica era stato niente meno che Google: nel 2008, il colosso di Mountain View aveva lanciato Google Flu Trends, un progetto che utilizzava i big data per prevedere l’andamento delle influenze stagionali. Il programma però è stato chiuso nel 2015, perché l’algoritmo incorreva in troppi errori. Un altro esempio, molto più recente e strettamente connesso all’attualità, è rappresentato da BlueDot, una piccola società canadese fondata nel 2014 da Kamran Khan, che ha lanciato i primi avvisi (inascoltati) sull’imminente epidemia di Covid-19 a Wuhan in Cina il 31 dicembre scorso, ben prima quindi delle comunicazioni, dell’OMS, il 9 gennaio 2020, e dei Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie, il 6 gennaio.
Come ha fatto a rilevare l’epidemia?
BlueDot si basa su un algoritmo che integra e analizza diverse fonti di dati (escludendo i social network, che ritiene troppo confusi): tra questi, i notiziari in 65 lingue, i report sulle malattie che colpiscono gli animali, i dati sulle prenotazioni dei biglietti aerei. Già nel 2016, la piattaforma era riuscita a prevedere l’arrivo del virus Zika in Florida.
Bluedot non è la sola a lavorare sull’intelligenza artificiale per prevenire il ripetersi di un’epidemia come quella di Covid-19. Negli Stati Uniti per esempio, il Cary Institute of Ecosystems Studies, un’organizzazione non profit che si occupa di ricerca, sta costruendo modelli matematici per capire da dove potrebbero arrivare gli agenti patogeni potenzialmente responsabili della prossima grande epidemia, con un focus particolare sulle zoonosi, ossia quelle malattie che possono trasmettersi dagli animali all’uomo.
Se i virus arrivano dagli animali
Secondo il Centre for Disease Control and Prevention (CDC), il 75% delle nuove malattie infettive – come il nuovo coronavirus – sono malattie zoonotiche, ovvero di origine animale. A volte questi virus mutano e fanno il “passaggio” agli esseri umani, con conseguenze potenzialmente devastanti. E lo faranno sempre più spesso negli anni a venire, complici il cambiamento climatico che scombina gli equilibri naturali e la globalizzazione che consente ai virus di viaggiare comodamente in aereo da una parte all’altra della Terra.
Uno dei problemi nella diffusione di queste malattie è che trovare gli animali “ospiti”, che fanno da veicolo al virus nel passaggio alla specie umana, è nella pratica difficilissimo. Pensiamo ai pipistrelli, noti “serbatoi” di virus: la loro popolazione è talmente ampia che isolare i portatori di malattie è quasi impossibile. E va peggio quando non si sa su quale specie indagare: a quel punto l’epidemia non si può prevedere finché non inizia a produrre effetti visibili.
Eppure trovare i “vettori” delle zoonosi consentirebbe di prevenire le epidemie o almeno di tenerle sotto controllo una volta scoppiate, sostiene Biodun Ogunniyi, consulente epidemiologo e medico del Centro nigeriano per il controllo delle malattie, citato in un articolo di freethink.com.
È qui che entrano in gioco gli algoritmi. Nello specifico, i modelli messi a punto dal Cary Institute utilizzano il machine learning per prevedere quali sono le fonti più probabili di malattie zoonotiche, dove si troveranno e come il cambiamento climatico e l’attività umana possono influire sulle nostre possibilità di contrarre il loro virus. Il tutto si basa su un archivio decennale di dati sugli animali (dimensioni del corpo e caratteristiche fisiche, abitudini alimentari, habitat e gamma, numero di cucciolate all’anno, vita media), punto di partenza fondamentale per il funzionamento dell’algoritmo.
Questi dati vengono poi integrati con altre informazioni di tipo cellulare, che aiutano a differenziare le popolazioni della stessa specie – per dire: i topi della Norvegia sono diversi dai topi del Messico – e con dati su clima e densità della popolazione umana. I modelli che ne derivano puntano a individuare le specie con le maggiori probabilità di ospitare malattie zoonotiche e le zone in cui si trovano.
Un algoritmo per tamponi più rapidi
Tornando all’emergenza attuale, c’è chi applica l’intelligenza artificiale non tanto nella prevenzione quanto nella diagnosi: Alibaba per esempio, avrebbe messo a punto algoritmi che impiegano 20 secondi per effettuare un test sulla presenza di Covid-19 con un’accuratezza del 96%.
Secondo quanto riportano Sina Tech News e altri media, il modello sfrutta complessi sistemi di analisi basati sul machine learning e addestrati con i dati campione di oltre 5 mila casi confermati: mettendo a confronto le tomografie, l’Intelligenza artificiale sarebbe dunque in grado di distinguere i casi di Covid-19 da quelli di una comune polmonite, in poco tempo e con un margine di errore minimo. Al momento il nuovo sistema di diagnosi sarebbe già in funzione, per ora solo nella struttura di Qiboshan, a Zhengzhou, nella provincia cinese di Henan.
Insomma, anche nel campo medico la vera ricchezza sta nei dati: l’intelligenza artificiale potrebbe essere uno degli strumenti più efficaci per prevenire i contagi dai virus, ma anche per curare le persone affette dalle epidemie. Non a caso il gruppo Alibaba ha annunciato che metterà a disposizione degli enti pubblici di ricerca le tecnologie di intelligenza artificiale per lo sviluppo di vaccini e medicinali.
1 – Coronavirus, un nuovo maelstrom sui mercati
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