“Rispetteremo la promessa fatta dal Parlamento al popolo e usciremo dall’UE il 31 ottobre”. Sottinteso: con accordo o senza. Così si è espresso il nuovo primo ministro inglese Boris Johnson nel suo primo discorso al numero 10 di Downing Street, Londra, mercoledì 24 luglio, giorno in cui ha ricevuto la nomina dalla regina Elisabetta.
Si proverà a raggiungere un nuovo accordo con l’Unione Europea, basato sul libero scambio e sul mutuo supporto, ma se i tentativi falliscono, nessun problema: il Paese è pronto a uscire anche senza un’intesa. “I confini, le banche e l’attività economica sono pronti per il no deal”, ha aggiunto Johnson, sottolineando che le difficoltà saranno minori rispetto a quelle paventate e annunciando un piano in autunno per sostenere le imprese e gli investimenti (con tanto di sgravi fiscali).
Nuovo governo pronto al no deal
Come hanno reagito i mercati a questi toni così risoluti? Tutto tranquillo, si potrebbe dire. L’attenzione è concentrata sulla riunione della BCE – la terz’ultima presieduta da Mario Draghi – e in più la vittoria di Johnson nella competizione interna ai Tories per l’elezione del nuovo leader del partito e primo ministro UK era ampiamente attesa.
Dopo il primo turno di voti, che ha eliminato tutti i candidati lasciando in corsa Johnson e Jeremy Hunt, c’è stato il secondo turno, nel quale erano chiamati a esprimere la propria preferenza i circa 160 mila iscritti al partito. E i sondaggi erano stati molto chiari: Johnson era il super favorito, con una quota di preferenze stimata attorno al 70-75%.
Nel tardo pomeriggio del 22 luglio è scaduto il termine per il voto per corrispondenza. Il 23 l’annuncio della sua vittoria su Hunt con larghissimo margine: 66% dei voti contro il 34%. Il 24, la nomina a primo ministro da parte della regina Elisabetta e il primo discorso.
Che avrebbe vinto si sapeva, quindi, così come si sapeva che è un Brexiteer di quelli convinti: un anno fa, il 10 luglio 2018, aveva rassegnato le dimissioni da ministro degli Esteri non condividendo i piani di soft Brexit dell’ex primo ministro Theresa May.
Avendo già digerito questi bocconi, i mercati – che non amano granché le incognite di un no deal – non hanno dato segno di scompensi. Il Ftse 100, indice azionario delle 100 società più capitalizzate quotate al London Stock Exchange, è ancora in guadagno rispetto ai valori di inizio anno (+10,2%) e alla chiusura di mercoledì 24 luglio restava sui 7.500 punti. Reazioni pacate anche sul fronte valutario.
Potrebbe essere interessante andare a vedere il Credit Default Swap a cinque anni del Regno Unito. Noi lo abbiamo fatto e vi riportiamo qui sotto il grafico che riassume l’andamento del costo dell’assicurazione dal rischio di fallimento del Paese.
Cosa ci nascondono i mercati?
Calma e gesso, quindi. Ma perché? Cos’è che non ci dicono? Ha forse ragione chi sostiene che “avevano predetto l’Apocalisse e invece tre anni dopo il referendum sulla Brexit siamo ancora tutti qua e stiamo benissimo”? Vediamo di rispondere, facendo il giusto ordine.
La Brexit, soft o hard che sarà, continua a rappresentare un’incognita per il Paese e per chi vi investe. Ma non si è ancora realizzata. E l’economia finora ha continuato a progredire con una certa serenità, complice anche il quadro globale che fino a qualche mese fa è stato più che favorevole.
Gli ultimi anni ci insegnano poi che ciò che conta davvero è avere sulla testa la protezione di un gigantesco ombrello chiamato banca centrale. E la Bank of England, in effetti, è lì che monitora la situazione: il governatore Mark Carney avrebbe dovuto lasciare a giugno, ma non a caso lo scorso settembre ha accettato di estendere il suo mandato fino al gennaio 2020.
E poi c’è il Parlamento UK
Come amaramente sa Theresa May, l’Accordo di Recesso presentato a novembre non ha il sostegno della maggioranza parlamentare. D’altro canto, neanche il no deal ce l’ha. Anzi. L’unica strada al momento percorribile sembra quella di un nuovo accordo.
Solo che Johnson e la sua squadra dovranno essere così in gamba da riuscire a portare a buon fine i nuovi negoziati entro fine ottobre. Obiettivo non agevolissimo da raggiungere, considerato che nel mezzo ci sono le vacanze estive e che comunque il nuovo accordo deve passare attraverso la ratifica del Parlamento.
I lavori dell’aula riprenderanno il 3 settembre, ma dopo due settimane si apriranno le annual conference dei partiti, che impegneranno i Laburisti fra il 21 e il 25 settembre e i Conservatori nelle date tra il 29 settembre e il 2 ottobre. Solo poi potranno ricominciare le trattative con l’UE. Si vede bene come il 31 ottobre sia a un battito di ciglia. Quindi? Hard Brexit?
Sul modello, potremmo dire, trumpiano, Johnson sembra insistere sulla minaccia del no deal più che altro per sbloccare a proprio vantaggio le negoziazioni con l’Unione Europea. Il Partito Conservatore appare però molto diviso ed è assai difficile – dicono gli osservatori – che appoggerà questa strategia all’unanimità. Così come difficilmente accetterà un no deal.
Ecco allora che, secondo la gran parte degli analisti, economisti, strategist e operatori di mercato, l’esito più probabile è quello di un ulteriore rinvio. “La promessa di Johnson ‘do or die’ durante la sua campagna manca semplicemente di credibilità”, scrive per esempio Azad Zangana, Senior European Economist and Strategist di Schroders, in una nota.
Noi, un po’ come la Banca d’Inghilterra, aspettiamo e stiamo a vedere.