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HomeECONOMIA E MERCATICOMMENTO AL MERCATO2017, un anno nel segno dei PIR

2017, un anno nel segno dei PIR

pir convengono davvero

La misura della persistenza del manicheismo nella nostra attuale cultura è lampante quando si parla di PIR: i pareri sono nettamente divisi. C’è chi considera i Piani Individuali di Risparmio come malefici figli dell’avidità dell’industria finanziaria, e chi invece ne tesse le lodi, presentandoli come il nuovo miracoloso prodotto che rende ricchi gli investitori e aiuta l’economia italiana.

Bene e male. Bianco e nero. Jedi vs Sith. Un mondo booleano.

Peccato che nel caso dei PIR una partizione netta non sia granché appropriata. C’è molto grigio. Ed è bene tenerne conto, se si intende fare un credibile bilancio di questo prodotto. Dunque analizziamo insieme i principali nodi della discordia – tranquilli, in modo sintetico, senza ripetere concetti ampiamente trattati in altri post, che abbiamo raccolto in un unico luogo.

  1. Beneficio fiscale: è un indubbio, solido punto a favore dei PIR. Infatti, purché vengano rispettate alcune condizioni, i PIR concedono l’esenzione totale dalle imposte sui redditi generati dall’investimento (e dalla tassa di successione, in caso di malaugurato decesso del sottoscrittore). Inoltre, in una famiglia di N persone possono esserci altrettanti PIR (volendo, anche intestati a figli minorenni), moltiplicando N volte l’effetto del beneficio fiscale. Non è poca cosa, sempre ammesso che ci siano plusvalenze da tassare.
  2. Performance: beh, niente da dire, le performance dei PIR sono state sin qui ottime, quantomeno al lordo delle commissioni di gestione e compagnia bella. In effetti, il 2017 è stato un ottimo anno in Borsa, e quella italiana si è distinta in positivo (anche se le performance a lungo termine restano sconfortanti). Questo, probabilmente, anche grazie al sostegno alla domanda di titoli derivante dal lancio dei PIR: nel 2017 sono stati raccolti oltre 7,5 miliardi di Euro in PIR, denaro utilizzato per acquistare titoli azionari ed obbligazionari italiani, influenzandone positivamente il prezzo. Basta una sbirciata distratta al grafico seguente per capire che, piaccia o non piaccia, un po’ di “effetto PIR” sulla performance c’è stato, eccome:
    L’indice più sensibile di tutti è il FTSE Italia STAR, che raccoglie imprese con capitalizzazione compresa tra 40 milioni ed 1 miliardo di Euro, “piccoline” e più sensibili ai flussi d’acquisto associati alla fenomenologia PIR. Segue il FTSE Italia Mid Cap, con le prime 60 società per capitalizzazione non appartenenti all’indice FTSE MIB, anch’esse appetibili per i PIR. Poi viene il FTSE AIM Italia, indice delle azioni quotate sull’AIM, il mercato di Borsa Italiana per le PMI con alto potenziale di crescita. Segue, staccato, il FTSE MIB, indice large cap delle prime 40 società italiane, in linea con lo Euro Stoxx 50, indice dell’Eurozona.
  3. Rischio Italia: una cosa che molti (noi di AdviseOnly in primis) hanno detto e ridetto è che i PIR sono un concentrato di rischio Italia. Proprio così. Quindi, per non compromettere la diversificazione di portafoglio, è meglio non esagerare con il peso in portafoglio di questi prodotti squisitamente Made in Italy. Su questo punto non ci piove: diversificare i rischi è l’ABC di portafoglio. Tuttavia, si può discutere su che cosa voglia dire “non esagerare”. Così io, per (de)formazione quantitativo-statistica, ho provato a farmi un’idea. Ho creato un portafoglio azionario globale “ottimo” minimizzando il downside risk (sfruttando al massimo la diversificazione), con le principali asset class azionarie, Italia inclusa. Ipotesi: non è chiaro quale mercato avrà le migliori performance da qui a 5 anni, quindi ci si focalizza sulla minimizzazione del rischio. Vi risparmio i dettagli tecnici, che potete leggere brevemente in nota1, e balzo alle conclusioni: il peso medio dell’Italia in tale portafoglio azionario globale “ottimamente” diversificato è in un intorno del 3%. Parlo solo di azioni, perché non ho dati sufficienti per ripetere l’esercizio con le obbligazioni societarie italiane; è però difficile pensare che la quota ottimale di corporate bond italici sia più grande, visto la loro marginalità nel panorama internazionale. Quindi, pensando a un PIR bilanciato, una quota di Italia difendibile ritengo stia tra il 2% e il 5%. Certo, il peso dell’Italia può aumentare se si ha l’idea precisa che l’azionario Italia abbia un potenziale maggiore rispetto ad altre asset class. Ad esempio, se si prosegue l’esercizio ipotizzando che l’Italia abbia le carte per rendere mediamente l’1% all’anno in più delle altre asset class azionarie, ebbene, il peso medio sale al 3,60%. La distribuzione di probabilità del peso ottimale è riportata nel grafico seguente – è chiaro che andare oltre il 10% di Italia rischia di diventare un atto di fede, più che una scelta di asset allocation.
  4. Costi: se parliamo di costi, parliamo di commissioni. Commissioni di gestione, di sottoscrizione, di performance. Ora, le commissioni dei PIR sono eterogenee, anche se mediamente elevate. Abituato a osservare in immersione gli squali nel loro ambiente, ho ravvisato nell’industria del risparmio la tipica efficienza del predatore apicale acquatico: grazie a commissioni ipertrofiche, con abile mossa molti operatori si sono impossessati del beneficio fiscale che il legislatore ha attribuito al risparmiatore. Si sono pappati un bel boccone di beneficio fiscale. Gli intermediari hanno sfruttato al meglio l’asimmetria informativa e tutti i bias cognitivi dei risparmiatori italiani per effettuare la predazione. Ma c’è un grosso ma: non è vero per tutti gli operatori e tutti i prodotti. Alcuni PIR hanno infatti commissioni “umane” e mantengono un buon margine di convenienza per chi investe – a tale riguardo, in questo post trovate alcune tabelle che vi torneranno utili – cercate e troverete. E, comunque, è semplice: basta leggere la documentazione informativa, valutare con raziocinio il prodotto che si ha davanti e non farsi prendere per il naso.
  5. Valutazioni: “L’Italia è cara, è in bolla”. “C’è valore nell’Italia, i margini di salita sono elevati”. Bah. Guardate il grafico seguente. Riporta il rapporto Price/Book, tradizionale e solidissima misura di valutazione fondamentale, per l’indice più rappresentativo del mondo PIR, il FTSE Italia STAR, confrontandolo con un ampio indice europeo, lo Stoxx 600, e un ampissimo indice mondiale, inclusivo dei Paesi Emergenti, ovvero l’indice MSCI World AC. Tanto più è elevato il rapporto Price/Book, tanto più è caro il mercato. Il grafico parla da solo: le valutazioni sono in linea con quelle delle Borse mondiali. Quindi investire in Italia non è certo conveniente (le Borse sono un po’ oltre il loro “valore d’equilibrio”), ma non è nemmeno una follia.
  6. Effetti sull’economia reale: il fiume di retorica speso per sottolineare l’effetto PIR sull’economia fa sembrare le cascate del Niagara un ruscello di campagna. Altrettanto forte è stata la corrente acida contraria. In realtà, a un anno dal loro avvio, è presto per dire se i PIR incidano o no sulla struttura produttiva italiana, caratterizzata da un’eccessiva quantità di PMI che faticano a crescere di dimensione. Si possono solo notare i primi effetti: ad esempio, la variazione nel numero di IPO. Parliamo quindi d’aziende che si quotano in Borsa spinte dalla buona accoglienza fino ad ora riservata ai titoli papabili per i PIR. Ho ripreso questa analisi includendo alcune nuove IPO e confrontando i dati italiani con quelli dell’Eurozona, prima e dopo il 2017. Qualcosa si vede…In sostanza, c’è stato un sensibile aumento nel numero di IPO in Italia: nel 2017 si è passati da una media mensile di 1 IPO a una media mensile di 2,5. Dato ancora basso rispetto al resto dell’Eurozona, se guardato in assoluto, ma altissimo se si guarda alla variazione percentuale: in Italia le IPO sono aumentate del 150%, mentre nell’Eurozona dell’8%. Analizzato con qualsiasi strumento e test statistico (test di Wilcoxon, stime con bootstrap effettuate in assoluto, o sulle differenze di valori, quello che volete), si tratta di un miglioramento super-significativo. Cioè: da inizio 2017, il numero di IPO in Borsa Italiana è aumentato in modo netto e significativo rispetto al passato, e questo aumento è d’intensità ben maggiore di quello verificatosi nell’Eurozona. Pertanto non è un mero effetto derivante dal miglioramento della congiuntura sul continente europeo. Difficile dire se sia un “effetto PIR”. Il sospetto c’è, onestamente.
  7. Educazione finanziaria: i PIR impongono (per godere dei benefici fiscali) d’investire per almeno un quinquennio in asset a rischio medio (obbligazioni societarie italiane) o alto (azioni italiane), o medio-alto (prodotti bilanciati/flessibili). Cioè: i PIR spingono gli investitori ad assumere rischi su un orizzonte temporale congruo – una novità per il risparmiatore italiano medio (sottolineo “medio”), creatura di documentata belluina ignoranza finanziaria, poco uso a mettere correttamente in  relazione rischio, rendimento e orizzonte temporale. Questa “spinta gentile” può fargli solo bene, al risparmiatore medio. Scusate il brutale paternalismo, ma tant’è.
  8. Effettiva fattibilità: in teoria, chiunque abbia investimenti in strumenti finanziari (azioni, obbligazioni, ETF) che siano PIR-compliant e fondi o polizze PIR, avrebbe diritto di comporsi un portafoglio a piacere e godere dei benefici fiscali previsti dalla normativa sui PIR. Tuttavia la teoria e la pratica sono lontane, e la faccenda non è poi così semplice. Alcuni intermediari hanno effettivamente lanciato conti dedicato ai PIR “fai-da-te”, grazie ai quali i clienti possono creare in autonomia il portafoglio, acquistando azioni, obbligazioni ed ETF, beneficiando della fiscalità agevolata, nel rispetto dei requisiti normativi. Ma costicchiano. Sicché, pragmaticamente, se non si ha l’animo e le pulsioni del bricoleur finanziario, il modo più semplice per usufruire dei vantaggi offerti dai PIR è investire in un prodotto PIR. Ad esempio un fondo comune. Con buona pace degli astratti principi ispiratori della normativa.

Un anno di PIR

Il bilancio di questo primo anno di PIR? Ognuno tragga le sue conclusioni, ma a me non sembra né bianco né nero: direi che è più un grigio leopardato.


1 – Per i più geek – gli altri no, che poi vomitano – qualche dettaglio sul metodo di costruzione del portafoglio: utilizzando dati mensili dal gennaio 2003 (scelta imposta dal fatto che Bloomberg fornisce i valori dell’indice Ftse Italy All Share da quella data) a oggi, ho applicato la tecnica del portfolio resampling (con block-bootstrap delle serie storiche) a una funzione obiettivo di minimo downside risk (momento parziale d’ordine due rispetto a un rendimento nullo, una specie di semivarianza calcolata con uno stimatore Bayesiano assai robusto), effettuando 10mila simulazioni d’investimenti di durata quinquennale, per ciascuna delle quali calcolo il peso ottimale delle varie asset class azionarie, Italia inclusa. In questo modo s’ottiene la distribuzione di probabilità dei pesi ottimali, dalla quale calcolo statistiche rappresentative, per esempio il peso medio ottimo citato nel post. Il peso ottimale si può calcolare con altre tecniche, ovvio, ma questa è probabilmente una delle migliori, in termini di robustezza dei risultati. Magari in seguito approfondirò la questione con un post dedicato.


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Uno dei fondatori di AdviseOnly, responsabile del Financial & Data Analysis Group. Esperto di finanza e gestione dei rischi, statistico Bayesiano, lunga esperienza in Allianz Asset Management, è laureato in scienze economiche con indirizzo quantitativo-statistico all'Università di Torino. Docente di Quantitative Portfolio Management al Master in Finance dell'Università di Torino, ha pubblicato vari articoli su riviste finanziarie (fra le altre: Journal of Asset Management, Economic Notes, Risk), contribuendo a libri su investimenti e gestione dei rischi. Ex-triathleta, s'ostina a praticare apnea, immersioni e skyrunning.

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