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Arrivano gli indici sulle criptovalute: cosa sono e come sono andati finora?

Piaccia o no, le criptovalute stanno guadagnando un’enorme popolarità negli ultimi anni, non solo presso gli investitori retail, come sempre affascinati dalla prospettiva di realizzare profitti a tripla cifra percentuale in un battito di ciglia, ma anche tra gli istituzionali, che guardano con interesse crescente a questa nuova asset class (PayPal, Bny Mellon, State Street GA e Goldman Sachs sono solo alcuni esempi). Questo “amore” per le cripto si vede nei numeri: al 31 agosto scorso, il settore ha raggiunto una capitalizzazione di mercato complessiva pari a circa 2,1 miliardi di dollari (fonte: www.lukka.tech).

Proprio da queste considerazioni prende le mosse S&P DowJones, che ha realizzato una serie di indici dedicati al mondo delle criptovalute, con l’obiettivo di rendere più accessibile e trasparente il settore.

Si tratta nello specifico di otto indici di mercato, dedicati a un gruppo selezionato di criptovalute che soddisfino dei requisiti minimi di liquidità e capitalizzazione di mercato. Bitcoin ed Ethereum – che a fine luglio 2021 pesavano per circa il 63% del mercato complessivo delle valute digitali, in termini di capitalizzazione – hanno ciascuna un indice dedicato (S&P Bitcoin Index ed S&P Ethereum Index), ma non sono le uniche a essere considerate: l’indice S&P Cryptocurrency Broad Digital Market (BDM) per esempio, riflette un vasto universo di investimento all’interno del mondo delle criptovalute.

 

Cosa c’è, esattamente, dietro la parola “criptovalute”?

Il discorso è complesso, anche perché, come accennato, parliamo di un’asset class molto variegata al suo interno. Se il 12enne Bitcoin ha fatto parlare abbondantemente di sé, nel bene e nel male, forse non tutti sanno che attualmente esistono oltre 10mila criptovalute differenti, che ne nascono continuamente di nuove e che ognuna ha caratteristiche proprie – per esempio, alcune vengono usate come riserve di valore, mentre altre servono come mezzo di scambio, come una qualsiasi moneta “tradizionale”.

E se è vero che oggi molti Paesi non riconoscono le criptovalute come valute legale né come dei veri strumenti finanziari, l’interesse nei loro confronti è comunque aumentato a dismisura negli anni recenti. Va detto che queste valute digitali hanno il pregio di offrire rendimenti totalmente decorrelati dalle altre asset class, tanto che alcuni gestori consigliano agli investitori di detenerne una piccola quota nell’ambito di un portafoglio tradizionale, in ottica di diversificazione del rischio.

Non solo. Le criptovalute e l’ecosistema che le circonda rappresentano un salto generazionale nel modo in cui gli asset finanziari vengono creati e utilizzati. Questi nuovi strumenti, infatti, vengono generalmente emessi e trasferiti su blockchain, una sorta di “registro digitale” con alcune caratteristiche distintive e sicuramente “disruptive”. Le vediamo qui di seguito.

  • Una catena decentralizzata: non esiste un amministratore centrale, né un database centralizzato, e questo implica che non ci sia una singola parte che controlla i dati.
  • A prova di “censura”: la maggior parte delle criptovalute non è emessa da un’autorità centrale e, per questo, è immune all’intervento governativo, ma non alla regolamentazione (almeno in teoria).
  • Tecnologicamente sicura (o quasi): la crittografia rende praticamente immune le criptovalute dalla contraffazione, ma non dal furto.
  • Immutabile: nessuna singola entità può alterare o annullare una transazione e questo succede grazie al consenso distribuito che caratterizza la blockchain.

Ma va detto anche che il regno delle criptovalute ancora sfugge alle maglie della regolamentazione, il che apre tutta una serie di questioni e interrogativi.

 

Unica regola: non ci sono regole (per adesso)

Ad oggi, infatti, non esiste un corpo regolamentare globale per disciplinare l’utilizzo di questi asset e molte leggi nazionali e locali non sono create specificamente per le valute digitali e le loro caratteristiche uniche.

Questo vuoto normativo si scontra con una diffusione delle criptovalute sempre maggiore: solo per fare un esempio, alcuni Paesi europei come la Germania e la Svizzera hanno approvato negli ultimi anni la quotazione di Etn basati su criptovalute. E al 31 luglio 2021 gli asset investiti nei circa 100 Etp europei su valute digitali quotati hanno superato i 4,6 miliardi di euro (fonte S&P Dow Jones).

Sta di fatto che le criptovalute non sono affatto prive di rischio. Anzi. Tanto per cominciare, c’è il rischio di frode (possono essere utilizzate per riciclare denaro, eludere le tasse o essere oggetto di offerte fraudolente), quello di manipolazione dei prezzi e del mercato, senza considerare il rischio di attacchi informatici e violazione di leggi nazionali o locali.

Quanto agli investitori retail che si avvicinano alle criptovalute sperando in guadagni facili, attenzione: si tratta di strumenti estremamente volatili e sicuramente non adatti a un investitore alle prime armi. In ogni caso, si tratta di strumenti da maneggiare con cura: molti esperti sostengono che la quota da destinare a Bitcoin & co. non dovrebbe mai superare il 5% circa del patrimonio investito.

 

Perché allora creare degli indici sulle criptovalute?

L’idea di S&P Dow Jones è quella di migliorare la trasparenza di un settore per sua natura piuttosto fumoso. Questi indici possono essere utilizzati come benchmark per prodotti come Etf, fondi comuni, fondi hedge e prodotti strutturati. Ma, soprattutto, servono a creare un sistema di prezzi solido e trasparente per le criptovalute. E ad aiutare gli investitori a comprendere la complessità del mercato degli asset digitali.

“Il nostro provider di prezzi è Lukka, che ci permette di fornire dati istituzionali di qualità, affidabili e standardizzati sulle criptovalute”, si legge sul sito di S&P Dow Jones.

Tre degli otto indici sulle criptovalute – S&P Bitcoin Index, S&P Ethereum Index, e S&P Cryptocurrency MegaCap Index – sono pensati per tracciare la performance delle due valute digitali più liquide e più famose, bitcoin ed ether (e una combinazione di entrambe pesata per capitalizzazione di mercato).

Gli altri invece comprendono anche altre valute: l’S&P Cryptocurrency BDM Index, per esempio, è pesato per capitalizzazione di mercato, mentre l’S&P Cryptocurrency LargeCap Index (che è un sottoindice del BDM) utilizza un algoritmo diverso per selezionare l’universo di investimento.

Altri indici escludono infine del tutto bitcoin ed ether, per focalizzarsi sull’andamento di criptovalute minori che sarebbero altrimenti oscurate dall’andamento delle due “big”.

 

Come sono andati finora questi indici?

S&P Bitcoin
Progettato per tracciare l’andamento della criptovaluta più anziana e conosciuta, l’S&P Bitcoin Index è nato il primo gennaio 2014. Dall’inizio, il suo rendimento storico annuale è stato di oltre il 71%, per un rendimento totale superiore al 5.700% fino al 30 settembre 2021. I rendimenti annualizzati, tuttavia, sono caratterizzati da un’elevata volatilità, che abbassa il rendimento corretto per il rischio: nei 12 mesi terminati il 31 agosto 2021 comunque, esso è stato superiore a quello dell’S&P 500, che ha avuto un anno eccezionale, con guadagni oltre il 29%.

S&P Cryptocurrency MegaCap e S&P Ethereum
Questi due indici sono stati lanciati rispettivamente a fine febbraio del 2017 e il 4 aprile 2016. L’indice S&P Ethereum ha registrato un rendimento total return del 26000% dal lancio (dati a settembre 2021). Nel grafico qui sotto, sia l’S&P Bitcoin sia l’S&P Ethereum sono stati ribasati alla data di lancio dell’S&P Cryptocurrency MegaCap per consentire un raffronto visivo delle performance.

S&P Cryptocurrency BDM e S&P Cryptocurrency LargeCap
L’indice S&P Cryptocurrency BDM è progettato per tracciare la performance delle valute digitali che soddisfano requisiti minimi di capitalizzazione di mercato e liquidità, oltre a vincoli qualitativi. A settembre 2021, includeva 240 criptovalute.

L’indice S&P Cryptocurrency LargeCap, invece, misura l’andamento degli asset digitali più grandi all’interno dell’indice S&P Cryptocurrency BDM, selezionandoli grazie a un algoritmo K-means modificato. Sebbene abbia solo 34 componenti, l’indice rappresenta più del 95% dell’indice S&P Cryptocurrency BDM in termini di capitalizzazione di mercato e ha avuto una performance simile all’indice principale negli ultimi tre anni.

I temi che si possono affrontare parlando di criptovalute sono ancora molti, e spesso controversi. Quel che è certo, e che ci interessa in questa sede, è che il settore sta vivendo una fase di enorme espansione, con nuovi asset digitali che spuntano senza sosta creando un nuovo ecosistema finanziario.

In un simile contesto, l’importanza di indici in grado di tracciare in modo trasparente la performance di questi strumenti non potrà che crescere, evidenzia S&P Dowjones. Dalle analisi condotte fin qui, emerge che criptovalute possono produrre una sovraperformance rispetto alle classi di attività convenzionali, ma sono molto volatili e imprevedibili, oltre che non prive di rischi.

Il consiglio resta sempre lo stesso: meglio andarci con i piedi di piombo e, soprattutto, non eccedere con i risparmi destinati a questi asset.

 


 

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La scrittura è sempre stata la sua passione. Laureata in Economia per le Arti, la Cultura e la Comunicazione all’Università Bocconi di Milano, è entrata nel mondo del giornalismo nel 2008 con uno stage in Reuters Italia e successivamente ha lavorato per l’agenzia di stampa Adnkronos e per il sito di Milano Finanza, dove ha iniziato a conoscere i meccanismi del web. All’inizio del 2011 è entrata in Blue Financial Communication, dove si è occupata dei contenuti del sito web Bluerating.com e ha scritto per il mensile Bluerating.

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