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La Borsa, le obbligazioni, l’elefante e le mosche

Il peso di azioni e obbligazioni sarà sempre dominante sui mercati.

Se un elefante vi viene addosso, va da sé, ciò che importa è l’elefante, non le centinaia di mosche che gli ronzano intorno o riposano sulla sua schiena. Questo perché nello studio di qualunque fenomeno – e gli investimenti non fanno certo eccezione – la cosa più importante è afferrare subito gli ordini di grandezza: la massa dell’elefante è di svariati ordini di grandezza superiore a quella delle mosche – questo fa la differenza, se venite travolti.

In altri termini (soprattutto quando il mercato traballa), è fondamentale avere la prospettiva macroscopica, “the big picture”, e capire innanzitutto ciò che domina su tutto il resto. Certo, poi ci sono anche i dettagli, ma essi hanno un impatto coerente con il loro nome: di dettaglio, appunto. Ovvero sono effetti di second’ordine.

Vediamo come quest’idea si applica agli investimenti dei propri risparmi.

 

L’elefante dei mercati

Quali e quante sono le forze dominanti sul mercato? Che cosa è cruciale nel determinare l’esito di un investimento, relegando tutto il resto al ruolo di dettaglio? Per capirlo, chiediamolo ai dati, interrogandoli con gli opportuni strumenti statistici.

L’esercizio è il seguente. Considero un paniere d’investimenti, asset class azionarie e obbligazionarie. Tutte replicabili facilmente con ETF o fondi comuni. Parliamo di 17 indici ben assortiti che includono le azioni delle principali aree geopolitiche (USA, Eurozona, UK, Giappone, Australia, Paesi Emergenti), i più importanti “fattori” del factor investing (cioè Value, Growth, High Dividend, Quality, Momentum, Size, Low Volatility), un buon assortimento sul fronte obbligazionario (obbligazioni governative e societarie di Eurozona, USA e area Pacifico), concludendo con un ampio indice globale di commodities. Ciascun indice è già ampiamente diversificato al suo interno, sicché si tratta di un bell’assortimento d’ingredienti per assemblare un portafoglio, naturalmente long-only (cioè senza la possibilità di “andare corti”, vendendo un’asset class senza possederla). I dati si riferiscono al periodo 2000-2018 (prima, svariati indici non sono disponibili).

 

 

Pure essendo distinte asset class, rispondono a fattori comuni, legati per esempio alla congiuntura economica, alle politiche monetarie, alla presenza di rischi a livello globale e via dicendo. In altre parole, i fattori sottostanti degli investimenti sono senz’altro un numero inferiore. Ciò, si noti, spiega la correlazione tra gli asset. Ora, è possibile stimare approssimativamente quanti sono questi fattori, e quanto sono realmente significativi, utilizzando (vi prego non andatevene, questa descrizione tecnica dura solo due righe) l’analisi delle componenti principali, o PCA, unita alla Random Matrix Theory. In sostanza si stimano le forze latenti in grado di spiegare i movimenti del mercato e se ne stabilisce la rilevanza comparandole con quelle che muovono un sistema del tutto casuale, ossia puro “rumore” – in nota dò qualche dettaglio in più per i curiosi1.

La domanda è: il grosso dei movimenti di quest’ammasso di asset class da quanti fattori è spiegato? La risposta è (vedi grafico): due.

Due fattori?!? Yes. Due soli fattori spiegano oltre il 75% dei movimenti del mercato e risultano distinguibili dal “rumore”, superando l’assicella della Random Matrix Theory. Cambiando periodo la percentuale oscilla un po’, ma non varia granché (resta per lo più tra il 65% e il 90%).

Ma che cosa sono questi due fattori? Difficile dirlo con esattezza, per via della tecnica statistica utilizzata, ma l’interpretazione primaria è: Borse e tassi d’interesse (che influenzano nel lungo termine anche i cambi). Cioè, l’elefante è bifronte: una testa è la direzione delle Borse, l’altra corrisponde ai tassi d’interesse. Capire la direzione dell’elefante è perciò la cosa più importante, il resto sono dettagli con un ordine di grandezza inferiore.

Una conclusione frettolosa sarebbe: non serve a nulla diversificare con svariate asset class, perché bastano un paio di ETF o fondi, uno di obbligazioni internazionali, ben diversificate per merito creditizio, e l’altro di azioni da tutto il mondo. Non è esattamente così: quei due ipotetici ETF contano per il 75% circa, ma c’è anche il restante 25% che può rendersi utile. Vediamo come.

 

Core-Satellite

Avrete senz’altro sentito parlare dell’approccio Core-Satellite (lo usiamo anche qui in AdviseOnly): in sostanza c’è uno zoccolo duro di investimenti basici, che costituiscono il Core, e poi c’è un contorno di altri investimenti accessori, che costituiscono il Satellite. Se fosse un pasto, il Core sarebbe il secondo, il Satellite il contorno.

Ecco, l’analisi precedente ci dice che cosa dovrebbe costituire il Core e cosa il Satellite:

  • il Core dovrebbe riflettere i fattori più importanti, cioè essenzialmente un ampio blocco azionario e obbligazionario, miscelati in proporzioni variabili in funzione del profilo del cliente;
  • tutto il resto finisce nel Satellite.

Semplice e logico.

 

Siamo tutti long-short

La situazione cambierebbe drasticamente se si potesse costruire un portafoglio long-short, ossia un portafoglio che investe in varie asset class, acquistandole (da cui: long), ma coprendosi contestualmente dai movimenti generici del mercato. La copertura si può fare vendendo (cioè: short), di solito tramite futures e altri strumenti finanziari derivati. Per esempio, s’acquista un paniere internazionale di azioni Value, e contestualmente si vende un paniere di generiche azioni mondiali e ci si porta a casa la differenza di rendimento tra azioni Value e azioni mondiali. Operando così sulle varie asset class, si “isolano” i premi al rischio.

Tanto per essere chiari, un portafoglio long-short è cosa normale per un gestore professionale, ma è pura fantasia per il grosso del popolo dei normali risparmiatori – definiti long-only perché possono vendere solo ciò che prima hanno acquistato (ndr: per il bene della vostra salute finanziaria, lasciate perdere gli ETF short, per favore, o peggio ancora i certificati short). Vale la pena presentare il caso long-short, perché illuminante su alcuni aspetti.

Fate quindi finta di essere un gestore “pro” che opera long-short, ripetendo l’esercizio sulle asset class depurate dall’effetto generico del mercato. E, Wingardium Leviosa, Stupeficium… guardate il grafico: magicamente, i fattori rilevanti ora sono cinque.

Ora, più fattori equivalgono a maggiori opportunità d’investimento. Vi sarà penso chiaro perché gli hedge fund operino spessissimo long-short. Ma non fatevi ingannare dal luccichio: mentre il rendimento delle asset class long-only nel periodo esaminato è stato positivo per 15 asset class su 17, con un valore medio del 3,6% annuo (passando per svariate crisi finanziarie, ve lo rammento), nel caso long-short è positivo solo in 8 casi su 17 ed in media è pari a 0%.

Ciò significa che una strategia buy & hold, del tipo “investi e dimentica”, è più che accettabile nel caso long-only, perché basta aspettare e ci si porta a casa il premio al rischio azionario e quello obbligazionario (da quando esistono i mercati finanziari è sempre andata così).

Invece, nel caso long-short bisogna essere dinamici, muoversi tra le asset class nel momento giusto, sempre a caccia di premi al rischio sfuggenti. Cosa non semplice. Lo dimostra la performance media degli hedge fund, che di strategie long-short ci campano: nel periodo di riferimento dell’analisi (2000-2018), l’indice HFRX Global Hedge Fund Index ha ottenuto una performance media annua netta dello 0,93%. Per mettere perfettamente a fuoco lo squallore di questa performance, considerate che l’indice Fideuram Bilanciato – un medione di fondi comuni italiani bilanciati storicamente sovraccarichi di commissioni, nel complesso non certo un modello di brillantezza gestionale, senza offesa per i gestori nostrani (be’, c’ero anche io lì in mezzo) – ha restituito una performance media annua netta dell’1,29%, cioè il 40% in più in termini percentuali (dati di fonte Bloomberg). Cambiando periodo la situazione non cambia un granché e la ragione d’essere degli hedge fund (in aggregato) non sembra giustificata da alcun numero di performance.

 

Che cosa portarvi a casa

Dopo questo lungo excursus, tiriamo le somme.

  1. Il mercato finanziario si muove trainato principalmente da due fattori, che con una prima rude approssimazione corrispondono a direzione generale dei tassi d’interesse e delle Borse (a livello globale). Il resto è d’importanza secondaria. Anche a livello di informazioni: fatevi un’idea della situazione di Borse e tassi, e saprete il grosso di ciò che c’è da sapere sul mercato, senza farvi distrarre da micro-notizie e micro-eventi con i quali i mass-media vanno a nozze.
  2. Potendo depurare l’effetto degli investimenti da questi due fattori primari, cioè Borse e tassi (andando così long-short, in stile hedge fund), entrano in gioco più fattori significativamente diversi sui quali basare la costruzione del portafoglio. Disgraziatamente, si perde anche il beneficio di ampi premi al rischio azionari e obbligazionari di lungo termine: la desolante performance media storica degli hedge fund ne è spietata testimonianza numerica.
  3. Insomma, per avere buone performance, quelle vere, occorre beccare la direzione di due sole variabili, cioè tassi e Borse – sfortunatamente per voi, è parecchio difficile.
  4. Il corollario è che due ETF (entrambi internazionali, uno azionario e l’altro obbligazionario), o un fondo bilanciato, sono più che sufficienti per costituire un portafoglio minimal e iniziare ad investire, mirando al medio-lungo termine, senza pensare di fare i fenomeni.
  5. Per chi ne ha la possibilità, condire la situazione precedente con asset class di maggior dettaglio aiuta senz’altro a diversificare i rischi, migliorando le prospettive in termini di performance rapportata al rischio (indice di Sharpe e di Sortino, quelle robe lì). Ma non aspettatevi miracoli.

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1 – Soglie sotto le quali i fattori non sono distinguibili da quelli corrispondenti al rumore. Il test originale non è particolarmente robusto, sicché ne ho adottato una versione basata sul bootstrap e nel quale il “rumore” segue una distribuzione di probabilità a “code grasse” (fat-tailed), una t-student. Nota nella nota: applicando la Indipendent Component Analysis anziché la PCA, la situazione non muta granché.

Scritto da

Uno dei fondatori di AdviseOnly, responsabile del Financial & Data Analysis Group. Esperto di finanza e gestione dei rischi, statistico Bayesiano, lunga esperienza in Allianz Asset Management, è laureato in scienze economiche con indirizzo quantitativo-statistico all'Università di Torino. Docente di Quantitative Portfolio Management al Master in Finance dell'Università di Torino, ha pubblicato vari articoli su riviste finanziarie (fra le altre: Journal of Asset Management, Economic Notes, Risk), contribuendo a libri su investimenti e gestione dei rischi. Ex-triathleta, s'ostina a praticare apnea, immersioni e skyrunning.

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