L’8 febbraio 2021, su questo blog, apparve un post a mia firma che presentava la cosiddetta “teoria dei tre cervelli”, anche nota come “teoria del cervello tripartito” o “trino”. Secondo questa teoria, in momenti successivi del nostro lungo cammino evolutivo nella nostra scatola cranica si sono depositati tre strati celebrali, uno rettiliano, uno mammaliano e poi l’ultimo, la neocorteccia.
Recentemente, però, ho iniziato a leggere con interesse e piacere il libro intitolato “La scienza dell’incredibile. Come si formano credenze e convinzioni e perché le peggiori non muoiono mai”, di Massimo Polidoro, con prefazione di Telmo Pievani, editore Feltrinelli. E insomma, a un certo punto l’autore spiega che non è proprio così, ovvero non esiste un “sandwich” di cervelli uno sopra all’altro. Di seguito, vi rispiego bene tutto. Seguitemi con attenzione.
Noi, Lucy e un film che a me è piaciuto molto
Il 24 novembre 1974, nella regione di Afar, in Etiopia, il paleoantropologo Donald Johanson e la sua squadra portarono alla luce lo scheletro più completo di un antenato umano, antico di più di 3 milioni di anni. Dal suo bacino si capì che era una femmina. La chiamarono Lucy, come in “Lucy in the sky with diamonds” dei Beatles. Stabilirono che era una Australophitecus afarensis, da Afar, la regione del suo ritrovamento.
Lucy l’australopiteco femmina, età stimata al momento del decesso 18 anni (quindi matura: all’epoca la vita durava in media 25 anni), è la special guest star del film di Luc Besson “Lucy”, uscito al cinema nel 2014. Protagonista, vuole il caso, è una giovane donna di nome Lucy, interpretata da Scarlett Johansson, una delle più affascinanti e talentuose discendenti dell’altra Lucy.
Di cosa parla il film “Lucy”? Riassunto senza spoiler
Ve la faccio molto breve. C’è uno neuroscienziato, il professor Norman, interpretato dall’immenso Morgan Freeman. A un certo punto, durante un convegno nel quale è relatore, alla platea spiega che secondo le stime “la maggior parte delle persone utilizza solo il 10% delle sue capacità cerebrali”. E invece “immagina che cosa succederebbe se potessimo sfruttare il 100%”.
Lucy è Lucy Miller, 25enne che vive a Taipei, in Taiwan. Un bel giorno, a seguito di una tumultuosa serie di eventi, le viene chirurgicamente innestato nell’addome un sacchetto contenente una nuova droga, il CPH4 sintetico: viene così obbligata da uno spietato clan criminale a farsi corriere, portando tale carico tossico in Europa. A un certo punto (ma non vi dico come) il sacchetto si rompe e la sostanza entra in circolazione e raggiunge il cervello di Lucy. O per meglio dire, lo bombarda: Lucy inizia ad accedere al presunto 90% non utilizzato e presto arriva al mitologico 100%. Con grandissimo effetto scenico, devo dire.
Ma è proprio così? Davvero c’è un 90% di cervello che la maggior parte di noi Sapiens, oggi, non utilizza e invece potrebbe?
Usiamo solo il 10% del nostro cervello? No, è un falso mito
Bisogna ammetterlo: l’idea è seducente, e in ogni caso buona a illudere i babbei come me che basterebbe un niente o quasi – magari uno di quei fantasmagorici corsi “per il potenziamento personale” o “per il miglioramento individuale” – per diventare Margherita Hack o Rita Levi Montalcini e forse persino di più. E invece no: quella del cervello usato solo in minima parte, oltre a essere un esilarante trailer di Maccio Capatonda & company (te lo ricordi? “Ciao, mi fai uno spread? Ah, scusa, uno spritz”), è una vecchia teoria che è già stata ampiamente smentita.
La visualizzazione del cervello attraverso le tecniche di brain imaging, infatti, non evidenzia alcuna area “dormiente” o non ancora “colonizzata”. Insomma, non solo quello che si vede è quello che c’è, ma quel che c’è, poco o tanto che sia, è tutto quello che utilizziamo.
Ti pare poco? Non rattristarti.
Abbiamo tre cervelli? Io ci avevo creduto, ma non è proprio così
A un certo punto, nella seconda metà del secolo scorso, il neuroscienziato Paul Donald MacLean formulò quella che poi sarebbe diventata nota come “teoria dei tre cervelli”. Anche conosciuta come “teoria del cervello tripartito” o “trino”. In sostanza, nel nostro comunque complesso e voluminoso cervello (circa 1.350 chilogrammi a fronte del mezzo chilo di Lucy), MacLean mise a fuoco tre “livelli”, ognuno dei quali con una specifica funzione.
Tre strati, che si sarebbero depositati in fasi successive dentro la nostra scatola cranica nel corso del nostro lungo cammino evolutivo (ed ecco che torna Lucy, con tutti gli ominidi che l’hanno preceduta, accompagnata e succeduta). Nel corso di questo cammino evolutivo, il nostro cervello sarebbe dunque andato progressivamente maturando funzioni via via più complesse.
Ed ecco, nel dettaglio, i tre strati.
- Cervello rettiliano, sarebbe il primo in ordine di comparsa e il più profondo in termini anatomici. Governa le nostre più istintive mosse per la sopravvivenza.
- Cervello mammaliano, il secondo strato, con un’articolata infrastruttura emozionale, che ci guida nelle relazioni affettive e sociali.
- Neocorteccia: rielaborazione dei dati, progettualità creativa, pensiero astratto, formulazione etica e morale sono tutte “app” che troviamo installate in questo incredibile sistema operativo.
Davvero è così? Non proprio, come appunto spiega nel suo recente libro Massimo Polidoro.
È un racconto dell’evoluzione del cervello che, per quanto ancora molto diffuso presso la cultura popolare, è ormai ritenuto decisamente superato dalle moderne neuroscienze. Ora non si ritiene più che il cervello si sia evoluto accumulando uno strato sopra l’altro di materia grigia, come diceva McLean, visto che tutti i mammiferi sono dotati di neocorteccia e anche i vertebrati, compresi rettili, uccelli, anfibi e pesci, hanno una qualche forma di corteccia. È più probabile, in accordo con la teoria dell’evoluzione, che le strutture biologiche più recenti siano versioni modificate di strutture più antiche.
Il libro è estremamente interessante, una vera e propria enciclopedia di bias di cui pure vi abbiamo tanto parlato nel corso di questi anni di evoluzione del blog di AdviseOnly. Dal confirmation bias in poi, ci lancia una sfida in ogni pagina, quindi io personalmente ve lo consiglio (e no, nessun “potere forte” mi “paka” per scrivere ciò, state sereni proprio).
Ma torniamo a noi.
Come usare il 100% del nostro cervello per investire bene?
Ok, è vero, noi usiamo già tutto il 100% del nostro cervello e non ne esiste una riserva pazzesca inutilizzata. Il che, però, non significa che lo utilizziamo sempre in maniera efficiente. Anzi.
La teoria economica classica dell’Homo Oeconomicus – razionale e ben portato per l’oggettiva ponderazione – era lusinghiera sotto tanti punti di vista, ma non spiegava gli svarioni e le cantonate di noi “esseri razionali”.
È stata poi la finanza comportamentale, alla luce anche delle conquiste della neuroscienza, a dirci che non di sola ragione vive l’essere umano, ma anche di emotività e di istinti di fuga o attacco. Usare il 100% del proprio cervello quando si investe non vuol dire rispolverare l’Homo Oeconomicus ma prendere consapevolezza dell’esistenza dei meccanismi di ogni area del nostro prezioso cervello per disinnescarne gli input più insidiosi.
Per esempio quando, di fronte ai cali di Borsa, ci dice “scappa” e invece ci conviene restare e beneficiare dei recuperi successivi, che come già tante volte ti abbiamo detto sono, tutto sommato, abbastanza fisiologici.