Nel 2023, anno in cui l’inflazione ha raggiunto tassi mai visti in oltre 40 anni, i Treasury Inflation-Protected Securities (TIPS, ossia i bond governativi protetti dall’inflazione) hanno registrato un rendimento totale negativo del -11,9%. A fronte per giunta del -6,9% del Dow Jones Industrial Average nello stesso periodo. Come mai?
Al tema è dedicata una recente analisi a cura di Jeffrey Cleveland, Chief economist di Payden & Rygel, che dà il suo punto di vista. Lo riportiamo qui di seguito poi, se vi va, nei commenti ci direte cosa ne pensate voi.
Cosa sono i TIPS e come funzionano?
Il 16 maggio 1996, ricorda Cleveland, il Segretario del Tesoro statunitense Robert Rubin annunciò l’iniziativa TIPS, volta a “incrementare il tasso di risparmio nazionale e a ridurre il costo del capitale per il governo federale”.
Gli Stati Uniti non sono stati gli unici o i primi a ricorrere a strumenti simili ai TIPS. “Da allora”, continua Cleveland, “il valore delle obbligazioni globali legate all’inflazione nei mercati sviluppati (i cosiddetti ‘linker’) è cresciuto da 12 miliardi di dollari a un picco di 3,5 trilioni di dollari nell’ottobre 2021, prima di scendere agli attuali 2,7 trilioni di dollari“.
Gli Stati Uniti hanno lanciato la loro prima versione il 29 gennaio 1997. All’asta di debutto, il governo ha venduto circa 7 miliardi di dollari di titoli con scadenza 15 gennaio 2007. Oggi, il 44% delle obbligazioni globali indicizzate all’inflazione sono TIPS statunitensi, il che forse giustifica la particolare attenzione che gli investitori riservano all’inflazione statunitense.
Un capitale che si adatta all’inflazione
Come per qualsiasi altro titolo del Tesoro statunitense, i detentori di TIPS ricevono cedole semestrali e il pagamento del capitale alla scadenza. La differenza è che nel corso della vita dei TIPS il valore del capitale aumenta in linea con l’indice dei prezzi al consumo (CPI) non destagionalizzato (NSA), mentre i pagamenti delle cedole semestrali sono determinati come una percentuale fissa del suddetto capitale scalato.
“Ipotizziamo”, scrive Cleveland, “un’obbligazione TIPS emessa ad aprile con un capitale di 1.000 dollari e una cedola dell’1,25% a cinque anni. Per l’orrore dei banchieri centrali, supponiamo che, subito dopo l’emissione, la notizia che l’inflazione salga al 5% e che rimanga lì per tutta la durata dei nostri TIPS con scadenza 2028. Di conseguenza, la prima cedola semestrale verrebbe calcolata utilizzando il capitale rettificato di 1.025 dollari”.
Perché 1.025 dollari? “Perché con inflazione del 5% annuo, l’IPC è passato da 100 a 102,5 nei primi sei mesi. Nel nostro esempio, in cui l’inflazione è bloccata al 5% per i cinque anni successivi all’emissione dell’obbligazione, il CPI aumenterà da 100 all’emissione a 127,63 alla scadenza”.
Di conseguenza, “il capitale adeguato pagato alla scadenza sarà di 1.276,28 dollari. Nel frattempo, un normale titolo del Tesoro statunitense avrebbe pagato solo 1.000 dollari alla scadenza. Alla scadenza, l’obbligazionista TIPS riceverà anche l’ultima cedola semestrale, ora pari a 7,98 dollari. Il vantaggio è quindi la possibilità di indicizzare il capitale all’IPC nel tempo“.
Tutto molto bene, quindi?
Non proprio, e per una serie di motivi, secondo Cleveland. In primo luogo, i dati dell’inflazione principale vengono pubblicati solo con un certo ritardo. Pertanto, i pagamenti del capitale saranno indicizzati a un valore ritardato dell’IPC piuttosto che al valore più recente.
In secondo luogo, le letture dell’IPC riflettono l’inflazione per il consumatore medio degli Stati Uniti.
Supponiamo che siate un genitore di un quindicenne che sta pensando all’università. Da quando vostro figlio è nato nel 2008, il capitale dei TIPS si è rivalutato del 43% con l’aumento dell’IPC. Tuttavia, il CPI per le rette universitarie è aumentato del 62%. Non tutti sono, infatti, sulla stessa lunghezza d’onda per quanto riguarda l’inflazione.
La sensibilità ai tassi di interesse (e alle tasse)
Anche se veniamo compensati per l’aumento dell’inflazione, se pure i tassi di interesse aumentano, allora i nostri titoli subiscono comunque l’effetto mercato, come è successo l’anno passato. Questo va bene se pensiamo di tenere i titoli obbligazionari fino alla scadenza, ma è meno favorevole se invece abbiamo bisogno di liquidità.
Per mettere le cose in prospettiva, Cleveland ci invita a immaginare due obbligazioni: una che vi ripaga in tre mesi e un’altra che invece ci mette dieci anni. “Ora, se i tassi d’interesse aumentano, preferireste riavere il vostro denaro prima per reinvestirlo ai nuovi tassi più alti”.
Pertanto, il prezzo dell’obbligazione a 10 anni (con una durata maggiore) dovrebbe diminuire di più rispetto a quello dell’obbligazione a tre mesi per renderla interessante per i potenziali acquirenti. Quindi, più lunga è la durata dell’obbligazione, maggiore è la sua sensibilità ai tassi di interesse.
L’aspirante investitore in TIPS ha un’altra spina nel fianco: le tasse. Un investitore soggetto a imposta deve trattare come reddito ordinario i pagamenti delle cedole ricevute durante l’anno fiscale e l’aumento del valore nominale del capitale, corretto per l’inflazione, ricevuto alla scadenza. Si tratta di un doppio colpo: certo, si riceve più reddito per compensare l’inflazione, ma va dichiarato allo Stato.
Per finire, date le dimensioni ridotte del mercato rispetto ai titoli del Tesoro nominali (1,9 trilioni di dollari di TIPS in circolazione rispetto ai 22,5 trilioni di dollari nominali), il mercato dei TIPS tende a presentare meno liquidità rispetto ai corrispettivi nominali.
Quanto hanno senso i TIPS?
I TIPS hanno spesso un ruolo fondamentale in un portafoglio obbligazionario ampio e diversificato. “Ma”, conclude Cleveland, “non bisogna credere a tutto ciò che è scritto sulla scatola: TIPS non vi immunizzeranno dal flagello dell’inflazione, nel caso in cui questa rimanga o si riaffermi nel 2023 e oltre”.