Dalla finanza green al greenwashing il passo è breve, anzi brevissimo. Basti pensare che, secondo un recente studio, moltissimi prodotti finanziari che si dichiarano sostenibili (circa il 70%) si limitano in realtà a darsi una (insufficiente) “pennellata di verde”. Insomma, tanto fumo e niente arrosto.
Non è certo la prima volta che si parla di greenwashing, cioè di quella pratica con cui alcune aziende dimostrano un’attenzione solo di facciata alla salvaguardia ambientale, più per marketing che per impegno verso il pianeta. Ne abbiamo parlato, vi ricordate1?
Anche i fondi si danno una pennellata di verde
In questo caso, però, lo studio condotto da InfluenceMap – un think tank globale e non profit focalizzato sui cambiamenti climatici – si concentra su un universo a noi particolarmente vicino, quello cioè dei fondi azionari, e lo analizza in profondità.
L’analisi si intitola “Climate Funds: Are They Paris Aligned?” e si propone di verificare se e in che misura i fondi presi in esame siano allineati ai criteri stabiliti dall’Accordo sul Clima siglato a Parigi nel 2015 nell’ambito della COP21, la 21esima conferenza sul clima.
Giusto per rinfrescarci la memoria, è l’accordo con cui 190 Paesi, inclusa l’Unione Europea, si sono impegnati a mantenere l’aumento medio della temperatura mondiale sotto i 2 gradi Celsius (se possibile anche 1,5) rispetto ai livelli preindustriali, con l’obiettivo di ridurre rischi e impatti del mutamento climatico. Ma arriviamo al punto.
Cosa dice lo studio di InfluenceMap?
Ebbene, cosa è emerso sui prodotti finanziari che si professano ESG e a tema climatico? Per arrivare a una risposta, InfluenceMap ha preso in esame 723 fondi azionari etichettati con parole legate all’ESG e al clima, con asset complessivi per oltre 330 miliardi di dollari. Li ha valutati utilizzando in realtà due criteri: non solo il già citato allineamento all’Accordo di Parigi, ma anche l’intensità di carbonio delle aziende presenti in portafoglio (dove una bassa intensità di carbonio corrisponde a una elevata efficienza ambientale).
I risultati sono sorprendenti. Tanto per cominciare, balza all’occhio una grande confusione sulla terminologia: le parole utilizzate per descrivere le strategie a tema climatico dei fondi azionari quotati sono moltissime, il che rende naturalmente difficile fare dei confronti (e orientarsi nella scelta). Per trovare il bandolo della matassa, InfluenceMap alla fine ha ridotto le definizioni a una trentina di termini e li ha raggruppati in due insiemi: fondi “ESG ad ampio spettro” e fondi “a tema climatico”.
Nella categoria dei fondi “ESG ad ampio spettro” il report ha identificato in tutto 593 fondi azionari con asset totali per 265 miliardi di dollari: di questi, il 71% (cioè 421 fondi) ha ricevuto un punteggio negativo alla voce “allineamento del portafoglio agli obiettivi di Parigi
La musica non cambia molto se si passa alla categoria dei fondi “a tema climatico”: qui la ricerca ha individuato 130 fondi con oltre 67 miliardi di dollari di patrimonio netto totale, che hanno dimostrato una grande variazione nella performance climatica, con punteggi di Portfolio Paris Alignment che vanno da -42% a +90%. Ma anche in questa categoria la maggior parte dei fondi – ben 72 su 130 – è risultata non allineata.
Non solo. I fondi a tema climatico continuano a detenere in portafoglio società legate alla produzione di combustibili fossili, per un importo complessivo di 153 milioni di dollari.
Quanto pesa il vuoto normativo
Questo fenomeno, spiega il rapporto, “è in gran parte il risultato della prevalenza di strategie passive che cercano di seguire gli indici di mercato applicando criteri di esclusione e/o ponderazione”.
Sicuramente vero. Ma il punto è un altro. Negli ultimi anni la sostenibilità è diventata “di moda” tra gli investitori e le case di gestione hanno cavalcato l’onda, facendo a gara nel lanciare prodotti etichettati come ESG, sostenibili, socialmente responsabili. Il tutto in assenza di un quadro normativo in grado di regolare il settore. Risultato? Il mercato si è trovato inondato di strumenti finanziari tutti ricompresi sotto la dicitura ESG, ma in realtà completamente diversi tra loro: da quelli che si limitano a escludere alcuni settori controversi a quelli impegnati nell’impact investing.
Come uscire da questo circolo vizioso?
Con una normativa più rigorosa. In questa direzione ha già iniziato a muoversi l’Unione Europea, con l’entrata in vigore, lo scorso 10 marzo, della prima parte del regolamento SFDR, che impone standard minimi di trasparenza sulle informazioni relative ai singoli prodotti di investimento sostenibile e che ha già spinto molti prodotti non conformi a rimuovere l’etichetta ESG. Il primo luglio del 2022 partirà (salvo ritardi) anche la fase 2 del regolamento, che dovrebbe fissare ulteriori e più precisi paletti.
Nell’attesa, oggi resta ancora difficile per gli investitori orientarsi nel mare magnum dell’offerta ESG. Meglio andarci con i piedi di piombo, leggendosi attentamente tutti i documenti informativi relativi ai prodotti in questione (qui una piccola guida per orientarsi nella documentazione dei fondi di investimento). Ma ci torneremo.
1. Greenwashing, quando il “verde” è solo marketing