Due stili d’investimento molto popolari sono value e growth. Ma l’approccio value è spesso ricondotto all’impiego di metodi di selezione puramente quantitativi, individuando le azioni sulla base di criteri numerici, per esempio in base al valore del rapporto P/E (prezzo/utili). Ciò rischia di essere riduttivo, perché gli elementi qualitativi sono importanti.
Investire significa comprare qualcosa il cui prezzo di mercato è inferiore al suo valore intrinseco. Il problema è che possiamo conoscere il prezzo di un’azione in qualsiasi momento, ma non possiamo mai essere sicuri del suo reale valore perché il futuro è incerto.
Per questo motivo molti investitori nel selezionare i singoli titoli azionari si affidano a criteri quantitativi: un’azienda che tratta ad un P/E di 10x (espressione compatta per dire: il prezzo è 10 volte gli utili) è considerata migliore di una con un P/E di 15x.
“Pagare poco” è un ottimo punto di partenza
Ma quello che dovrebbe interessare di più è l’ammontare dei flussi di cassa (cash flow) che l’azienda sarà in grado di generare nel corso del tempo: in tal senso, sarebbe consigliabile dare maggior peso a fattori qualitativi, come la capacità del management di allocare il capitale, e così via. Va considerato inoltre che la qualità, in genere, si paga: un’azienda come Novo Nordisk difficilmente tratterà a multipli contenuti, ma può essere un “affare” anche ad un P/E di 30x.
Meglio la qualità?
Dal mio punto di vista l’approccio puramente quantitativo ha un inconveniente: è vero che Mr. Market è di quando in quando affetto da disturbi bipolari, ma non è un completo idiota per la maggior parte del tempo. Le aziende che trattano a bassi multipli, soprattutto nelle condizioni di mercato attuali, tendono infatti ad avere problemi specifici e prospettive future mediocri: si dice che sono “cheap for a reason”.
È quindi molto improbabile che siamo i primi ad accorgersi che quel titolo tratta ad un P/BV di 0,5x, e che quindi è destinato a raddoppiare in 6 mesi. Oggi ci sono dozzine di database ed è fin troppo semplice identificare aziende statisticamente a buon mercato: se la chiave per identificare con successo quelle sottovalutate fosse puramente quantitativa, allora forse i gestori umani sarebbero stati rimpiazzati da robot già da tempo.
Ogni azione a “buon mercato” che troviamo oggi ha probabilmente qualche problema: possono essere specifici (troppo debito, management “egoista”, …), settoriali (esposizione ai mercati emergenti, ad oil & gas, …) o una combinazione di entrambi. Se non riusciamo ad identificarlo, è molto probabile che ci sia sfuggito qualcosa.
Perché i criteri quantitativi non sono sufficienti
Ci sono almeno 4 buoni motivi per essere molto accorti nel selezionare un investimento in un’azione solo sulla base di un basso multiplo.
1. La volatilità dei flussi di cassa
Gli utili/flussi di cassi sono volatili e difficili da prevedere: quello che sembra a buon mercato può rivelarsi ex-post molto costoso. È (relativamente) più semplice analizzare i vantaggi competitivi e la bravura del management, fattori ben più importanti nel determinare la capacità di generare profitti nel lungo termine. Se provassi a stimare gli utili di Visa per il 2016, sono sicuro che sbaglierei, probabilmente anche di molto. Dall’altro lato, ho più fiducia nel fatto che sia un’ottima azienda guidata da manager competenti: preferisco focalizzarmi su quello che posso sapere ed è importante, piuttosto che su qualcosa in cui non sono migliore di una scimmia che tira freccette ad un bersaglio.
2. Investire richiede dei sacrifici nel breve periodo
Le aziende che investono per il lungo periodo devono considerare i costi nel conto economico, il che riduce gli utili, mentre i rendimenti si vedranno solo nei prossimi anni. La stessa azienda che non facesse questi investimenti sarebbe più a buon mercato (per via degli utili più alti) ma, se questi investimenti davvero creano valore nel lungo termine, allora il suo P/E attuale potrebbe non indicare necessariamente una sottovalutazione.
3. Principi contabili conservativi
Le aziende che sono gestite per il lungo periodo tendono ad utilizzare principi contabili più conservativi, motivo per cui le società con gli utili contabili più elevati non sono necessariamente quelle più convenienti.
4. Il management e l’allocazione di capitale
Il sell-side tende ad ignorare la capacità del management di allocare il capitale. In genere, gli analisti considerano la liquidità come una componente residuale, ignorando l’effetto di acquisizioni, buyback e riduzione del debito. Questo porta a stime troppo conservative per le aziende migliori, che hanno economie di scala e possono impiegare ulteriore capitale in progetti a rendimenti superiori, ed allo stesso tempo a sopravvalutare le aziende scarse, che invece distruggono valore – soprattutto quando i volumi collassano.
L’evidenza empirica
Ci sono dozzine di studi, parecchi alla base di molti ETF smart beta, che evidenziano la persistenza del fattore value. Quindi si potrebbe concludere che è inutile perdere tempo analizzando i fondamentali, basta comprare alcune dei titoli di queste aziende e nel corso del tempo avrò ottenuto risultati soddisfacenti. Ci sono almeno due controindicazioni per questa strategia.
- I risultati funzionano solo su portafogli di moltissime azioni. Ad esempio, sull’ultimo decile delle azioni americane, che vuol dire comunque un portafoglio di 400-500 azioni.
- Nel corso del tempo alcuni fattori (primi tra tutti P/E e P/BV) sembrano aver perso rilevanza. Una metrica molto utilizzata oggi (EV/EBIT, resa popolare da Joel Greenblatt) potrebbe a sua volta veder diminuire la sua importanza in futuro.
Non sono a conoscenza di nessuna ricerca specifica, ma la mia impressione è che la miglior performance di questi portafogli sia dovuta ad una “power law”, ovvero che sia determinata da un sottoinsieme ridotto di titoli: gran parte delle azioni cheap si rivelano delle value trap, e tutto l’alpha è dovuto alle poche che invece ritornano ai fasti passati e più che compensano per quelle che continuano a deperire.
Value & growth
Se il fattore value è effettivamente così potente, perché nell’ultima decade l’indice MSCI World Growth ha battuto di oltre 40% MSCI World Value (cumulato)? E come mai alcuni value investor, anche famosi, hanno perso molti soldi, cominciando con banche e housing prima della crisi e proseguendo con energy & mining oggi, tutti titoli comprati a valutazioni molto contenute (almeno all’apparenza)?
La risposta è in realtà semplice: tutte queste value trap sono passate attraverso periodi di enormi investimenti e crescita degli asset prima del loro collasso. Chi ha guardato solo alle metriche tradizionali (P/E, P/BV) e ha ignorato i cambiamenti nelle condizioni di domanda/offerta è stato preso in contropiede.
Prendiamo ad esempio l’immobiliare USA. Prima della crisi, alcuni famosi value investor erano pesantemente investiti nel settore perché le valutazioni sembravano molto attraenti: le aziende più grandi trattavano ad un P/BV di 1,2x ed un P/E di 9x. Queste aziende hanno poi perso in media il 75% del loro valore ed il book value è crollato anche di più: sono state vittime della loro stessa bolla immobiliare, acquistando massicciamente terreni a prezzi gonfiati e contribuendo all’eccesso di offerta di nuove abitazioni. Ci sono voluti oltre sei anni prima di digerire l’eccesso di offerta e stabilizzare le valutazioni dei terreni.
La stessa identica cosa è accaduta alle banche e, più recentemente, ad energy & mining. Tutti i settori capital-intensive seguono lo stesso schema: l’industria vede un aumento della domanda, i prezzi aumentano ed i profitti si moltiplicano perché aumentare la capacità produttiva richiede tempo. Tuttavia, dopo qualche tempo la nuova offerta è pronta, i prezzi cominciano a diminuire e rimangono bassi a lungo. In tutti questi settori (cemento, minerari, acciaierie, …) il P/E è sempre contenuto appena prima del crollo dei prezzi.
Le mie conclusioni
Mr. Market è spesso bipolare ed i prezzi possono deviare anche molto dal loro valore intrinseco. Tuttavia, molte aziende sono costose anche se a prima vista sembrano value; al contrario, azioni growth con posizioni competitive vantaggiose possono essere investimenti decisamente migliori, assumendo che riescano a mantenere un elevato ROIC (Return on invested capital).
Semplicemente, parlando di singole azioni, comprare qualcosa che tratta a bassi multipli – senza alcuna analisi approfondita del business sottostante – espone al rischio di investire in “cattive” aziende: comprare quello che è a buon mercato funziona solo su portafogli con molte azioni. È spesso molto più remunerativo fare l’analisi una volta sola e poi mantenere per anni una posizione in un’azienda di qualità.
La versione originale di questo articolo, più lunga ed approfondita, è apparsa in due parti qui e qui.