Facciamola semplice. Il tasso d’interesse è il costo del denaro. In pratica, rappresenta quanto coloro che hanno a disposizione denaro contante pretendono come ricompensa per:
• rinunciare a spenderlo subito;
• darlo in prestito;
• assumersi il rischio che il debitore non onori il suo debito.
Se ci pensate, è quello che ogni società bancaria o finanziaria fa quando ci concede un prestito o un mutuo. Ma un analogo meccanismo soggiace ai finanziamenti alle imprese e a quei prestiti che noi, in qualità di risparmiatori/investitori, concediamo a un emittente nel momento in cui accettiamo di sottoscriverne le emissioni obbligazionarie.
Un tasso d’interesse non è per sempre
Niente affatto, anzi: i tassi di interesse si muovono. Perché? Per molte ragioni. Concentriamoci su quella fondamentale. Il mercato del denaro è come un incontro sportivo, ovvero una partita nella quale si fronteggiano:
• coloro che hanno i denari da prestare;
• coloro che hanno bisogno di quei denari.
A seconda della forza relativa dei primi e dei secondi, i tassi di interesse salgono e scendono mettendo così in equilibrio il mercato del denaro (cioè del credito), che è un mercato come tutti gli altri, regolato dalla legge della domanda e dell’offerta.
In particolare, i tassi d’interesse tendono a salire nelle fasi di boom economico, nelle quali la gente, spinta dall’ottimismo, chiede più credito, per esempio per comprare più case o avviare nuove aziende, o ampliare quelle esistenti. In questa situazione, la competizione fra quanti fanno richiesta spinge i tassi al rialzo. Viceversa, i tassi d’interesse tendono a scendere nelle fasi di rallentamento.
Il mercato del credito? Come un villaggio
Semplificando molto, possiamo immaginare il mercato del credito come un villaggio nel quale cui vivono due o tre vecchietti molto ricchi ma un po’ acciaccati – e quindi poco intraprendenti – e un manipolo di giovanotti squattrinati ma pieni di idee e volenterosi di avviare nuove attività per migliorare la loro condizione economica.
Supponiamo che i giovanotti vogliano avviare (non ne abbiano a male i vegani che ci leggono, questo è soltanto un esempio, nessun animale è stato maltrattato durante la stesura di questo post) degli allevamenti di bestiame, perché nel villaggio tutti vogliono mangiare più carne (amici vegani, ricordate che questo è solo un esempio).
Ebbene, la competizione degli aspiranti allevatori per accaparrarsi i soldi dei risparmi dei vecchietti farà salire i tassi d’interesse. Supponiamo poi che dopo cinque anni, quando gli allevamenti sono a pieno regime, l’offerta di carne nel villaggio superi la domanda e quindi i prezzi della carne scendano.
Ciò farà diminuire il desiderio di aprire nuovi allevamenti. Quindi la domanda di risparmio diminuirà e i gagliardi vecchietti saranno pronti a prestare soldi anche a tassi più bassi che in precedenza, purché su progetti con buone prospettive.
Quindi il credito è, in un certo senso, la benzina dell’economia. Se i tassi di interesse sono bassi, la domanda di credito per gli investimenti in attività produttive ne viene incentivata: ciò comporterà un incremento dell’occupazione, e di conseguenza un aumento della spesa (guadagnando di più, generalmente si spende di più).
A sua volta, questo fatto provocherà un balzo della domanda di beni e servizi, che comporterà un aumento della produzione. E così via. Questa spirale positiva, però, ha spesso una conseguenza che va attentamente monitorata: tipicamente, infatti, viene generata inflazione. Vediamo come.
Quella spirale chiamata inflazione
Pensiamo al nostro villaggio. Se si innesca la spirale positiva – nella quale con i soldi presi in prestito gli allevatori assumono nuovi lavoranti, ai quali pagano stipendi, con i quali essi comprano più carne, e così via – tale spirale può andare avanti fino a quando non si incappa in un “collo di bottiglia”.
Per esempio, una carenza di nuovi pascoli per le mucche. In tal caso, la capacità produttiva del nostro villaggio è al massimo, ma rimane una domanda di carne non soddisfatta, data la carenza di pascoli per nuovi eventuali allevamenti (e, quindi, la carenza di nuove mucche).
Tutto ciò porterà a un aumento dei prezzi della carne, al quale i lavoratori risponderanno chiedendo un aumento di salario. Se l’aumento di salario verrà concesso, vorrà dire che agli allevatori costerà di più produrre carne. Quindi, se vorranno mantenere intatto il loro profitto, dovranno aumentare i prezzi. E così via.
Non è nient’altro che quello che sta succedendo attualmente con le materie prime, la cui carenza comincia a produrre i suoi effetti anche sui prezzi dei prodotti di largo consumo.
In sintesi: ci saranno in giro troppi soldi, all’inseguimento di troppo pochi beni. Pertanto, i prezzi aumenteranno, e non di poco.