Oggi dedichiamo un post ai fondi comuni d’investimento, strumenti che appartengono alla grande famiglia degli OICR (Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio). Data la loro popolarità presso i risparmiatori italiani proviamo a raccontarvi qualcosa in più a riguardo.
Aggiornato il 19/04/2017
Cosa sono i fondi comuni d’investimento?
I fondi comuni d’investimento sono dei “contenitori” (veicoli d’investimento) in cui i risparmiatori fanno confluire i propri risparmi.
I fondi comuni, per svolgere la propria funzione di veicolo del risparmio, hanno bisogno dell’apporto di tre soggetti:
- I “sottoscrittori”. Siete voi risparmiatori, ossia l’insieme degli investitori che decidono di partecipare al fondo. Ogni risparmiatore diventa titolare di una quota del fondo in base alla quota di capitale versato. Ad esempio, se verso 10mila euro in un fondo che ha raccolto 1 milione di euro, sarò titolare dell’1% delle quote del fondo;
- La Società di Gestione del Risparmio (SGR). È il braccio operativo dei fondi comuni, la società a cui i sottoscrittori fanno affidamento per la gestione dei propri risparmi (formalmente, ha la “delega di gestione”). La SGR decide in quali strumenti finanziari investire il danaro raccolto nei fondi, stabilisce il regolamento, come va gestito il fondo e quanto costa in termini di costi di gestione pagati dai sottoscrittori.
- La banca depositaria. Il suo ruolo è quello di custodire (letteralmente) i titoli del fondo e detenere le disponibilità liquida. In pratica, le società di gestione operano attraverso un meccanismo di delega, ma non hanno mai la proprietà del capitale raccolto o dei titoli acquistati. Per questa ragione, i fondi comuni sono privi di rischio di credito: gli investimenti sono sempre di proprietà dei sottoscrittori. La banca depositaria ha inoltre il compito importantissimo di controllare che la valorizzazione del fondo sia corretta: infatti, ogni giorno il patrimonio del fondo viene valorizzato in base ai prezzi di mercato e poi pubblicato (è la famosa “quota”): così, in modo molto trasparente, si sa quanto vale il proprio denaro investito.
Che tipo di fondi comuni si possono comprare?
Tralasciando i vari aspetti giuridici e semplificando un po’, possiamo dire che i fondi comuni d’investimento si dividono in due grandi famiglie:
- i fondi comuni tradizionali (tra i quali includiamo anche le SICAV), che possono essere chiusi o aperti;
- gli ETF (acronimo di Exchange Traded Fund).
Che differenza c’è tra queste due famiglie di fondi comuni?
- La distribuzione: i fondi tradizionali sono distribuiti attraverso un processo di “collocamento”. In sostanza, se voglio comprare un fondo tradizionale devo rivolgermi a un intermediario autorizzato al collocamento (la propria banca, ad esempio), ovvero legittimato a vendere tale fondo (ammesso che esista un accordo commerciale tra chi vende e chi gestisce il fondo). Da qui, l’attuale importanza della rete di distribuzione, cioè promotori finanziari o sportelli bancari o private banker. Gli ETF, invece, sono venduti in Borsa, come un’azione. Tuttavia, la regolamentazione sta cambiando: dal 1° dicembre 2014 è partito un nuovo mercato promosso da Borsa Italiana e chiamato EtfPlus, dove sono quotati i fondi comuni di investimento (qui il nostro ultimo post su questo argomento).
- Gestione dell’attività: nella maggior parte dei casi, in Italia almeno, i fondi tradizionali sono a gestione “attiva”: questo vuol dire che le società di gestione prendono una molteplicità di decisioni che dovrebbero permettere al fondo di battere un determinato indice “benchmark”, oppure conseguire un “total return”, cioè un ritorno assoluto, attraverso una strategia gestionale. Di norma, il fondo ricerca l’Alfa (di cui abbiamo parlato qui). Al contrario, un ETF ha di norma una gestione “passiva”, cioè il gestore del fondo si limita a replicare la performance di un determinato indice o mercato (ad esempio un ETF sulla Borsa di Milano replicherà, pari pari, l’andamento di Piazza Affari).
- La struttura di costo: la gestione “attiva” presuppone un maggiore dispendio di risorse in analisi e rotazione dell’attività. Per questa ragione di solito la gestione attiva ha una struttura di costi più onerosa rispetto ad una gestione passiva. Semplificando ecco i costi a cui potreste andare incontro a seconda del fondo:
- La gestione attiva prevede:
- Commissione d’ingresso: si paga al momento della sottoscrizione delle quote del fondo.
- Commissione di gestione: è il costo associato all’attività di gestione vera e propria.
- Commissione di performance: è la commissione che viene trattenuta se il fondo raggiunge determinati obiettivi (ad esempio ottiene una performance migliore del benchmark), stabiliti nel regolamento.
- Commissione d’uscita: è una sorta di penale per l’uscita dal fondo.
- La gestione passiva prevede:
- Commissione di gestione
- Costi di negoziazione: sono i costi che il risparmiatore sostiene per operare in Borsa.
Spesso la voce “costi” dei fondi comuni e degli ETF viene sintetizzata nel TER (Total Expense Ratio), che comprende l’insieme delle commissioni. Sottolineiamo ancora che un investitore in ETF (o in fondi quotati in Borsa) oltre alle commissioni deve anche considerare i costi di negoziazione. La varie tasse che gravano sugli strumenti finanziari sono un ulteriore onere sia per i fondi tradizionali, sia per gli ETF.
È meglio investire in un fondo tradizionale oppure in un ETF?
A priori, è impossibile dirlo. Possono essere entrambi ottimi strumenti, così come pessime soluzioni d’investimento: non dipende dal veicolo ma su cosa si investe, dal fatto che lo strumento sia adatto o meno ai propri fini e dal costo.
La performance di un fondo è infatti frutto d’un mix di fattori che dipendono dal profilo di rischio del fondo, dalle scelte d’investimento della società di gestione e ovviamente dalla struttura dei costi.
Prima di gettarsi nell’investimento in un dato fondo, occorre verificare la politica d’investimento, il livello di rischio, l’entità e la struttura dei costi e, infine, com’è andato storicamente in termini di performance. Quest’ultima è un’informazione di limitata validità, a meno di non avere anni di storia: non prevedendo il futuro, non c’è fondo (tradizionale o ETF) che possa garantire un rendimento certo per il futuro.
Negli ultimi anni gran parte del successo degli ETF è dovuto proprio al fatto che, grazie alla loro semplicità e ai bassi costi, hanno ottenuto performance superiori a buona parte dei fondi tradizionali.
La vera sfida per un investitore accorto consiste proprio nel ricercare strumenti il cui costo sia giustificato dalla qualità del prodotto rispetto alle proprie esigenze (dando per scontato che sia in linea con il proprio profilo di rischio). Non è affatto detto che fondi con costi elevati siano migliori di fondi con costi bassi.
Il mondo dei fondi comuni sta cambiando
Intanto una grossa novità sta prendendo piede nel mondo dei fondi comuni tradizionali Dal 1° dicembre 2014 è possibile infatti quotare questi prodotti sul listino EtfPlus di Borsa Italiana. La partenza è avvenuta a rilento, ma ora il motore sembra ben avviato: nel momento in cui scriviamo gli operatori attivi sono in tutto dieci, per un totale di 66 fondi in negoziazione (72 comparti).
Con la quotazione migliora in primis l’accessibilità. Al momento a sfruttare l’opportunità della quotazione sono stati soprattutto i player più piccoli, che avevano difficoltà a stringere accordi con le grandi reti di distribuzione. Ma il recentissimo debutto dell’americano TCW, primo grande operatore internazionale con 180 miliardi di dollari di patrimonio in gestione (ne abbiamo parlato qui), lascia ben sperare.
Non ci resta che attendere.