Da materia per esperti è diventato un argomento “omnibus” quasi al pari del meteo: è lo spread, ovvero il differenziale di rendimento tra BTP italiano a 10 anni e Bund tedesco di pari durata. Il 9 novembre 2011, in piena crisi del debito, arrivò a 574 punti base. Negli anni successivi ha ripiegato fino a 100 punti, tornando a lanciare segnali di irrequietezza a partire dal maggio di quest’anno.
Lo spread è importante, ma non è tutto
Lo spread è un indicatore molto popolare perché abbastanza efficace nel dare una prima idea del rischio associato all’emissione obbligazionaria di un Paese dell’area euro. Come abbiamo accennato, è il risultato della differenza tra il rendimento del decennale italiano (o spagnolo, o francese, o portoghese, eccetera) e quello del titolo tedesco a 10 anni.
La Germania è usata come termine di paragone non a caso. È infatti considerata l’economia più robusta e con i migliori conti pubblici della zona: rapporto debito/PIL atteso sotto il 60% nel 2019, bilancio in avanzo e una variazione annua del Prodotto Interno Lordo che nel secondo trimestre 2018 è stata del +2,1%.
Quindi, dicevamo: un indicatore sufficientemente significativo. Ma non del tutto. Perché se da una parte è vero che spesso, quando sale lo spread, maggiore è il grado di rischio attribuito al Paese messo a confronto con Berlino, è anche vero che tale valore può aumentare anche in scia a un calo del rendimento del titolo di Stato tedesco, fermo restando quello dell’emissione posta a paragone.
La prova del nove: la curva dei rendimenti
Ancora più utile e significativo è un altro indicatore: la cosiddetta “curva dei rendimenti”, ovvero la dinamica dei rendimenti dei titoli di Stato di un Paese lungo tutte le scadenze. L’inclinazione della curva è condizionata dal premio per il rischio, ovvero quanto gli investitori chiedono per investire in un’obbligazione a lungo termine piuttosto che a breve.
Il premio per il rischio, a sua volta, riflette:
- la tendenza dei prezzi, e quindi l’inflazione;
- il comportamento della banca centrale (quale politica monetaria sta seguendo, se la manterrà o la cambierà alzando o abbassando il costo del denaro, e via dicendo);
- il merito creditizio e, dunque, l’affidabilità dell’emittente;
- l’andamento dell’economia.
Ma anche la durata dell’impegno gioca un ruolo. In linea di massima, se il creditore rinuncia alla disponibilità dei suoi soldi per un breve periodo di tempo – sei mesi o un anno, per esempio – non potrà pretendere in cambio un tasso di interesse alto quanto quello di chi sceglie di investire in un titolo trentennale, a meno che l’obbligazione che acquista non implichi l’assunzione di un consistente grado di rischio. Ne consegue che, in una situazione di normalità, più lunga è la scadenza, maggiore è il rendimento.
Ricapitolando: se un investitore si priva oggi di una somma e sa che potrà riottenerla indietro tra molti anni, chiederà un premio più elevato, anche perché sulla solvibilità dell’emittente tra sei mesi, un anno o due anni in genere ha più visibilità rispetto alla sua solvibilità tra sette, 10, 20 o 30 anni.
I tre tipi di curva dei rendimenti
La curva dei rendimenti può assumere tre forme.
- Curva inclinata positivamente. È la situazione normale: quando la scadenza si allunga, i rendimenti salgono. È indicativa di una fase economica espansiva e/o inflattiva e può riflettere le attese di una politica monetaria più rigida, che presume, per esempio, tassi d’interesse più elevati.
- Curva piatta. I tassi a breve sono all’incirca uguali a quelli a lungo. Si tratta di una forma insolita, che generalmente indica una fase di transizione verso un’inclinazione positiva o negativa.
- Curva inclinata negativamente. Qui c’è addirittura un’inversione: più lunga è la scadenza, minore è il rendimento. Questo tipo di curva è indicativa di una fase economica recessiva e/o deflattiva e può riflettere le aspettative di politica monetaria più accomodante. Questa forma può segnalare una situazione in cui gli investitori nutrono seri dubbi perfino sulla solvibilità di breve periodo dell’emittente, che quindi deve offrire rendimenti più generosi per convincerli a comprare le scadenze corte. Così generosi da superare addirittura quelli proposti per le scadenze più lunghe.
Come è messa l’Italia
A questo punto ci chiediamo: com’è, alla data del 30 ottobre e con uno spread che continua a orbitare attorno ai 300 punti, la curva dei rendimenti delle obbligazioni governative italiane? Eccola.
Una curva del tutto normale, quindi. Occorre ovviamente monitorare i rischi, in primis l’escalation delle tensioni fra l’Italia e la Commissione UE sulla Legge di Bilancio 2019.
La liquidità in portafoglio
A chi vuole cogliere le opportunità offerte dalla parte breve della curva, non solo in Italia, UBS Asset Management propone l’UBS ETF (LU) Euro High Quality Liquid Assets 1-5 Bond (LU1805389258), il primo Euro Aggregate Short Duration Ex Financials: la definizione di high quality liquid asset deriva dal pilastro di Basilea III sulle proprietà di liquidabilità degli asset detenuti in portafoglio.
L’ETF, che è a replica fisica, presenta uno yield to maturity dello 0,39%, una duration modificata del 2,87, uno spread medio del 77,54 e un rating medio A2. La composizione per asset class include un 55,98% di titoli governativi, un 43,67% di obbligazioni societarie non finanziarie e uno 0,35% di cash.
Le scadenze brevi italiane, che nel contesto attuale presentano un rischio contenuto a fronte di rendimenti interessanti, sono al primo posto: le probabilità che il Paese incappi in un problema di solvibilità in un orizzonte di uno o due anni appaiono molto basse, complice anche il fatto che i BTP in scadenza entro fine 2019 sono solo il 13% del totale.