Alla fine, la tanto attesa nota su un possibile quarto rialzo dei tassi da parte della Federal Reserve nel 2018 è arrivata. È successo a metà giugno, dopo il meeting in occasione del quale i membri del Federal Open Market Committee (FOMC) – l’organismo tramite cui la banca centrale USA attua la sua politica monetaria – hanno aggiornato le loro indicazioni sui tassi d’interesse a fine 2018, 2019 e 2020.
I mercati attendevano con ansia di conoscere quello che nel settore è noto come “dot plot”, ossia la sintesi grafica di queste indicazioni sui tassi a venire che viene diffusa a marzo, giugno, settembre e dicembre.
Le nuove stime della Fed
Il “dot plot” di giugno ipotizza un quarto intervento di aumento dei tassi nel 2018 rispetto ai tre su cui la Fed ha insistito fino a marzo, poi tre nel 2019 invece dei due stimati in precedenza e uno nel 2020 contro i due indicati precedentemente. Insomma, dopo anni di tassi a zero e liquidità straordinaria a sostegno dell’economia, la linea della Fed si fa decisamente più restrittiva.
E infatti, come ampiamente atteso, il 13 giugno il comitato di politica monetaria ha anche alzato i tassi portandoli al range compreso tra l’1,75% e il 2% (dall’1,5%-1,75%), in quello che è stato il secondo aumento del 2018 dopo i tre del 2017.
Il tutto nel quadro di nuove e migliori stime di crescita. Per l’anno in corso, infatti, la banca centrale USA si aspetta una variazione del Prodotto Interno Lordo pari al +2,8%, dal +2,7% dei pronostici di marzo. Un’espansione della quale, a cascata, beneficerà il mercato del lavoro, tanto che le stime della Fed ora vedono il tasso di disoccupazione attestarsi nel 2018 al 3,6%, quindi sotto il 3,8% riportato nelle previsioni di marzo.
Inflazione in ripresa
Più crescita vuol dire anche più consumi, e maggiori consumi spingono più in alto i prezzi. E infatti, ora i funzionari della banca centrale USA scommettono su un aumento dell’inflazione maggiore rispetto all’1,9% della stima precedente e pari al 2,1%. La loro allerta rimane sintonizzata in particolare sul dato “core”, quello cioè che non considera le componenti più volatili, atteso al 2% e non più all’1,9% (che era la stima diffusa a marzo).
Il nuovo “dot plot”, con le indicazioni aggiornate su dove saranno i tassi a fine 2018 e nei prossimi due anni, è figlio proprio di queste nuove stime di maggiore crescita ma anche di più alta inflazione. È la conferma di una tendenza che ha preso il via a metà 2016.
Proteggersi dall’inflazione
Ora, se da una parte l’inflazione è sintomo di un’economia che cresce – quindi una buona notizia – dall’altra un aumento eccessivo dei prezzi può dare filo da torcere ai portafogli.
Per un risparmiatore che investe in obbligazioni, soprattutto, un incremento dell’inflazione comporta un minore rendimento reale. E se entro un certo limite questa perdita è sopportabile e, anzi, fa parte del gioco, nel momento in cui l’inflazione supera le attese è bene porsi il problema di cosa fare per proteggere i guadagni.
La questione è particolarmente attuale negli Stati Uniti, dove i segnali di crescita economica sono, come ci ha confermato la Fed, più forti rispetto ad aree come l’Europa e il Giappone. E dove, per un investitore che voglia mettere qualche soldo nelle obbligazioni, una possibile soluzione è rappresentata dai Treasury Inflation-Protected Securities (TIPS): si tratta di obbligazioni che, tenendo conto del livello di inflazione, difendono il rendimento reale dell’investimento.
Come funzionano i TIPS
I TIPS tendono ad avere una performance migliore rispetto alle normali obbligazioni nel momento in cui l’inflazione che si riscontra supera quella che il mercato si aspettava per quel particolare momento storico. In altre parole, se l’inflazione realizzata è maggiore di quella attesa ex ante, i TIPS fanno meglio dei bond nominali con la stessa scadenza, dato che il premio al rischio e le aspettative prezzate in precedenza nel bond nominale risultano essere insufficienti.
Ecco perché, in una fase di ripresa dell’inflazione, in cui è più probabile che i suoi valori futuri travalichino le attese, i TIPS possono costituire una soluzione per difendere il rendimento reale degli investitori. Altra soluzione possibile è l’ETF TIPS, che replica la performance di un paniere di obbligazioni indicizzate all’inflazione.
Gli ETF TIPS di UBS
Il ventaglio di offerta di UBS comprende tre strumenti di questo tipo. L’UBS ETF (LU) Bloomberg Barclays TIPS 1-10 UCITS ETF (USD) A-dis (LU1459801434) punta a replicare (al lordo delle spese) il prezzo e la performance in termini di reddito dell’indice Bloomberg Barclays US Government 1-10 Year Inflation-Linked Bond Index. Indice che include l’importo totale di US Treasury Inflation-Protected Securities in circolazione con una scadenza di almeno un anno ma non superiore a 10.
L’UBS ETF (LU) Bloomberg Barclays TIPS 1-10 UCITS ETF (hedged to EUR) A-acc (LU1459801780) mira a replicare, al lordo delle spese, il prezzo e la performance in termini di reddito dell’indice Bloomberg Barclays US Government 1-10 Year Inflation-Linked Bond Index hedged to EUR, il quale pure ricomprende titoli del Tesoro emessi dagli Stati Uniti con una durata residua di almeno un anno ma non superiore ai dieci.
La particolarità in più è la copertura valutaria per ridurre l’impatto delle fluttuazioni del cambio fra la divisa di riferimento e quella dell’indice.
Infine c’è l’UBS ETF (LU) Bloomberg Barclays TIPS 10+ UCITS ETF (USD) A-dis (LU1459802754), il cui obiettivo è replicare, sempre al lordo delle spese, prezzo e performance in termini di reddito dell’indice Bloomberg Barclays US Government 10+ Year Inflation-Linked Bond Index. Tale indice ha in pancia titoli del Tesoro emessi dagli USA con una scadenza di almeno 10 anni e viene riequilibrato mensilmente.
1. Questi dati si riferiscono al passato. La performance indicata non tiene conto di eventuali commissioni e costi addebitati all’atto della sottoscrizione e del riscatto di quote e degli eventuali oneri fiscali. Fonte: UBS Asset Management.