Lunedì 7 maggio il petrolio WTI ha oltrepassato la soglia psicologica dei 70 dollari al barile mentre il Brent è arrivato a 76 dollari, entrambi ai massimi dal novembre 2014.
E i rialzi potrebbero non finire qui: l’imminente reintroduzione delle sanzioni USA contro l’Iran (terza potenza petrolifera OPEC dopo Arabia Saudita e Iraq) e la difficilissima situazione in cui versa il Venezuela potrebbero spingere ulteriormente i prezzi.
Il perché è presto spiegato: sono tutte e due situazioni molto critiche che possono pesare seriamente sulla produzione e sull’offerta, riducendole. Cosa che, di fronte a una domanda più robusta, chiaramente provocherebbe un aumento delle quotazioni.
Fari puntati sul greggio
Il petrolio greggio, come si può intuire, è uno dei protagonisti della congiuntura economica, alla quale è legato a doppio filo: se la domanda cala, a parità di offerta il prezzo scende; se invece è l’offerta a calare, stante una domanda forte, il prezzo sale; ma un prezzo del petrolio in aumento può rallentare il motore dell’economia globale.
L’influenza dell’OPEC
D’altro canto, i Paesi esportatori – oggi raccolti attorno alla sigla OPEC Plus, che comprende gli storici membri dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC, appunto) e i non OPEC, come la Russia – non amano quotazioni del barile troppo basse, perché ovviamente per loro sono meno profittevoli: ecco perché periodicamente intervengono riducendo l’offerta.
Il potere contrattuale dell’OPEC è emerso in tutta la sua evidenza per la prima volta durante le crisi petrolifere degli anni Settanta, quando questa Organizzazione ridusse le quote di estrazione con conseguente innalzamento vertiginoso del prezzo del petrolio.
Da quel momento i Paesi industrializzati cercano di limitare la loro dipendenza dalle importazioni di greggio, ma a dispetto di tutto le fonti energetiche fossili, petrolio in primis, ricoprono ancora un ruolo di primissimo piano nel consumo mondiale.
La resilienza delle commodity
Il petrolio è una commodity. Questo termine indica le materie prime, categoria nella quale oltre ai prodotti energetici rientrano quelli agricoli, come frumento o bestiame, i metalli (oro, argento, alluminio, e via dicendo) e le soft commodities (cacao, caffè, cotone, zucchero).
In sintesi:
- le materie prime – e i metalli preziosi in particolare – presentano una bassa correlazione con le altre asset class come azioni, obbligazioni e valute;
- per questa ragione offrono un’importante possibilità di diversificazione;
- infine, in quanto beni naturali, tendono ad apprezzarsi in un contesto caratterizzato da un aumento dei prezzi al consumo.
Prospettive di lungo periodo
Quello nelle materie prime, dunque, si può considerare un investimento strategico. Anche per un altro motivo: le risorse naturali saranno sempre meno disponibili, a fronte di una popolazione mondiale che invece aumenta esponenzialmente (le stime parlano di 9 miliardi di individui nel 2050).
E, come accennato, un’offerta sempre più limitata combinata a una domanda crescente in genere favorisce il rialzo dei prezzi.
Ma come cogliere questo megatrend? In altre parole, come investire nelle materie prime? Abbiamo quattro possibili strade, che sintetizziamo qui di seguito.
L’approcio di UBS
Per consentire agli investitori di cogliere le opportunità offerte dalle materie prime, UBS, in collaborazione con Bloomberg, ha sviluppato la famiglia di indici UBS Bloomberg CMCI, il cui obiettivo è fornire un’esposizione ai mercati delle materie prime utilizzando una tecnica di rolling avanzata (il rolling consiste nella sostituzione di un contratto in scadenza con un altro di maturità successiva).
Tali indici sono progettati per ottenere buoni risultati indipendentemente dal fatto che i mercati siano in contango (situazione in cui i prezzi attuali sono più bassi di quelli futuri, impliciti appunto nei futures) o in backwardation (al contrario, i prezzi di oggi sono più alti di quelli sottintesi nei futures).
Gli UBS ETF sulle commodities
UBS propone una vasta gamma di Exchange Traded Fund con replica sintetica e ad accumulazione basati proprio su questi indici. Da segnalare che il Total Expense Ratio (TER), ossia il rapporto tra gli oneri a carico del fondo e il suo patrimonio medio, si è abbassato per tutti dallo 0,37% allo 0,36%. Di seguito, una panoramica.
In Borsa Italiana, ad oggi, sono quotati due di questi ETF. Uno è l’UBS CMCI Composite USD SF UCITS ETF (ISIN IE00B53H0131), che replica esattamente la performance giornaliera di un indice delle materie prime, meno commissioni e spese. Si tratta del più grande ETF sulle materie prime in Europa in termini di asset in gestione: utilizza l’innovativa tecnica di rolling a maturity costante che può consentire di ridurre i costi di rolling e aumentare il rendimento.
È costruito in modo da riflettere, per ogni singola commodity, l’importanza economica e la liquidità di mercato. Diversificazione e liquidità sono assicurate da un cap sul peso di ogni componente pari al 20% e da un floor pari allo 0,6%. L’ETF è attualmente composto da 28 commodities e i pesi sui singoli settori a fine marzo 2018 risultavano distribuiti come evidenziato dal grafico qui sotto.
Ma dicevamo che gli ETF di UBS quotati in Borsa Italiana sono due. L’altro, in pratica, ne è la versione con copertura dal rischio cambio (hedged to EUR). Anche questo ETF (ISIN IE00B58HMN42), dunque, offre un profilo di rischio/rendimento ottimizzato grazie all’ampia diversificazione su una vasta gamma di settori.
A proposito dell’indice
Entrambi gli ETF replicano l’UBS Bloomberg Constant Maturity Commodity Index. Due parole in più a riguardo: questo indice ha una portata superiore a quella dei contratti future a breve termine e diversifica gli investimenti lungo tutta la curva delle scadenze (3 mesi, 6 mesi, 1 anno, 2 anni, 3 anni).
Consentendo agli investitori di accedere a “scadenze costanti”, attraverso ribilanciamenti giornalieri su tali scadenze, non solo fornisce un’esposizione più continuativa alla classe di attivi ed evita le attività speculative che possono accompagnare i rinnovi mensili degli indici tradizionali, ma può anche minimizzare l’esposizione a rendimenti negativi sul rolling, facendo sì che l’indice rifletta meglio l’andamento del mercato sottostante.