Aumento dei tassi d’interesse negli Stati Uniti e rafforzamento del dollaro USA, valuta in cui il loro debito è rinominato. Senza dimenticare un terzo fattore decisivo, anche questo made in USA: il neoprotezionismo del presidente Trump, che sta dando alla categoria filo da torcere.
Tuttavia, nell’universo frastagliato dei Paesi emergenti – all’interno del quale, negli ultimi anni, ai cosiddetti “emerging markets” (Cina, Brasile, India, Russia, Messico, Corea del Sud, per citare i più importanti) si sono affiancate le “developing economies” (Sud Africa, Venezuela e molte altre) – ci sono ancora diverse opportunità interessanti. Basta saperle cogliere.
Estremo oriente e tigri asiatiche
Iniziamo il nostro viaggio dalla Cina, principale bersaglio delle scelte fortemente neoprotezionistiche della Casa Bianca. Per dare sostegno alle aziende e compensare i potenziali effetti negativi della linea del rigore USA, la politica monetaria della banca centrale cinese si è fatta più accomodante.
E l’India? Il PIL indiano è cresciuto più del previsto nel secondo trimestre: +8,2% su base annua, meglio del +7,7% del trimestre precedente. Si tratta di una delle economie emergenti meglio posizionate per resistere a un eventuale rallentamento del commercio mondiale, considerando che la sua dipendenza dalle esportazioni è fra le più basse della categoria.
Senza dimenticare che in Asia si trova anche la Turchia, dove a metà settembre la banca centrale ha trovato il coraggio di alzare i tassi portandoli al 24% dal 17,75%, con buona pace del presidente Erdogan, che era contrario.
Coast to coast in Sud America
Anche l’Argentina, come la Turchia, ha attraversato il suo calvario valutario: a metà settembre, il peso aveva perso più del 50% nel cambio con il dollaro USA da inizio anno. L’inflazione è al 30% e la banca centrale ha alzato i tassi al 60%. Il presidente Mauricio Macrì ha sollecitato l’intervento del Fondo Monetario Internazionale, che per contro ha chiesto sforzi decisivi in tema di politica fiscale. Il governo si è adeguato alla richiesta, ma ci si chiede se e quanto questa linea resterà in vigore, stanti le elezioni dell’ottobre 2019.
Il Venezuela è finito nelle fauci dell’iperinflazione, mentre la produzione di petrolio, complici i mancati investimenti nelle infrastrutture, è andata a picco. Il 20 agosto il bolivar venezuelano è stato sostituito dal bolivar soberano, e intanto le drammatiche condizioni in cui versa la popolazione sono un fatto assodato.
In Brasile è alle battute finali la campagna elettorale: si voterà il 7 ottobre e al nuovo presidente si chiederà il coraggio di presentare un piano credibile per ridurre il disavanzo fiscale. Il Messico quantomeno si è lasciato alle spalle l’incertezza dopo aver raggiunto con gli USA l’accordo post NAFTA, che si concentra in particolare sull’auto, con quote alla produzione e paga oraria media dei lavoratori.
Insomma: emergenti sì o no?
Tutto questo, tradotto in termini di scelte di investimento, cosa significa? Che gli emergenti vanno evitati? Assolutamente no, anche perché, secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale l’aggregato Emergenti più economie in via di sviluppo nei prossimi cinque anni darà un contributo sempre più decisivo alla crescita globale (a fronte di quello decrescente delle economie avanzate), come si vede bene dal grafico qui sotto.
Piuttosto, quanto detto ci conferma che i mercati emergenti e quelli in via di sviluppo rappresentano una classe d’investimento ampia e variegata ed è possibile sfruttare questa loro caratteristica attraverso, per esempio, un mix di obbligazioni sovrane e societarie in valuta forte e in valuta locale.
Ma oggi più che mai è importante essere selettivi: il credito emergente dovrebbe trarre beneficio da un’offerta più ridotta e dalla maggiore attrattiva rispetto ad altri segmenti del mercato, però è essenziale investire nei titoli giusti e adeguare attivamente l’esposizione alle opportunità più promettenti. Per chi non abbia la competenza specialistica o la stazza per andare direttamente a cogliere – e a movimentare in portafoglio – gli spunti che il mercato offre, c’è un’alternativa: gli ETF.
La risposta di UBS AM
UBS Asset Management propone l’UBS ETF JPM USD EM Diversified Bond 1-5 (LU1645385839), primo ETF in Europa che combina investimenti nelle obbligazioni governative e societarie dei mercati emergenti con una scadenza residua tra l’uno e i cinque anni. Obiettivo dell’ETF è replicare il J.P. Morgan USD EM Diversified 3% capped 1-5 Year Bond Index, che comprende le obbligazioni sovrane, quasi-sovrane e societarie di breve termine dei mercati emergenti in dollari, con un focus sulla liquidità e la qualità creditizia. Il peso massimo assegnato a ogni Paese è del 3%, per ridurre il rischio di concentrazione. Escluse le obbligazioni con un ammontare di emissione inferiore ai 500 milioni di dollari USA e le obbligazioni societarie con rating inferiore a B- (per le sovrane e quasi-sovrane non ci sono restrizioni in termini di rating). Il ribilanciamento è mensile.
Duration, yield to maturity, composizione: identikit dell’ETF
Un indicatore importante per cogliere le peculiarità dell’ETF è la duration, la quale esprime la sensibilità del prezzo dei titoli obbligazionari al movimento dei tassi d’interesse. Tanto più la duration è alta, tanto più il titolo o l’ETF è sensibile ai movimenti dei tassi. Ebbene, cosa ci dice la duration di questo ETF? Che siamo sul 2,77 (dato Bloomberg aggiornato al 10 settembre 2018), quindi su un valore contenuto. Da segnalare poi lo Yield to Maturity (YTM), ossia il rendimento a scadenza implicito dell’investimento obbligazionario nell’ipotesi che venga detenuto fino a scadenza: al 10 settembre, secondo Bloomberg, era del 6,4%. Infine, la composizione: al 31 agosto i titoli governativi costituivano il 52,6% e i corporate il 47,4%.
Nuovo lancio in Borsa Italiana
Di recente, poi, la gamma di ETF obbligazionari sui mercati emergenti si è arricchita con il lancio su Borsa Italiana dell’UBS ETF J.P. Morgan EM Multi-Factor Enhanced Local Currency Bond Ucits ETF (ISIN LU1720938841), che consente di esporsi al debito dei Paesi emergenti in valuta locale replicando il J.P Morgan EM Multi-Factor Enhanced Local Currency Government Bond, composto da 385 bond sovrani e quasi-sovrani di 53 Paesi Emergenti con taglio superiore ai 500 milioni di dollari USA. Oltre all’UBS ETF J.P. Morgan USD EM Diversified Bond 1-5 UCITS ETF e al nuovo ETF, la gamma comprende l’UBS ETF Barclays USD Emerging Markets Sovereign UCITS ETF, che offre un’esposizione ampia e ben diversificata al debito sovrano e quasi-sovrano di 60 Paesi emergenti.