Eccole qua. Sui mercati si riaffacciano due vecchie conoscenze: l’avversione al rischio e la volatilità. Entrambe si sono riviste i primi di febbraio, quando si è registrato un calo dei listini azionari e una risalita dei rendimenti dei titoli di Stato, con il decennale USA che lunedì 5 febbraio ha toccato i massimi dal gennaio 2014, in rialzo di oltre 40 punti base da inizio anno.
Normalizzazione al via
Insomma, la sostanziale parità tra azionario, che nel 2017 ha beneficiato della crescita sincronizzata globale, e obbligazionario, che invece ha tratto beneficio dall’inflazione contenuta, sembra destinata a uscire di scena. A rendere possibile tale parità erano state le politiche monetarie estremamente accomodanti. Ma con la ripresa economica e i salari che accelerano, le banche centrali non possono certo girarsi dall’altra parte.
E se il 5 febbraio, in audizione al Parlamento Europeo, il presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi ha ribadito che l’economia dell’area euro si espande “in modo robusto” e che la crescita va “oltre le attese e sopra il potenziale” aggiungendo però che, malgrado l’inflazione si stia avvicinando all’obiettivo, “non possiamo ancora dichiarare vittoria”, ragion per cui i tassi resteranno all’attuale livello ancora a lungo e certamente oltre la fine del quantitative easing, al termine della riunione del 30 e 31 gennaio la Federal Reserve ha dichiarato di aspettarsi un aumento dell’inflazione nel corso del 2018, lasciando presagire un rialzo dei tassi più aggressivo del previsto.
Va detto che finora le autorità monetarie hanno saputo gestire con grande chiarezza ed equilibrio la comunicazione e gli aggiornamenti in merito ai propri orientamenti, consentendo ai mercati di prepararsi per tempo ed evitare spiacevoli scossoni. Difficilmente cambieranno metodo nel 2018, come hanno dimostrato le riunioni di inizio anno di Fed e BCE. Con la ripresa economica che prende forza e l’inflazione vista in aumento, però, non si può escludere che il ritiro delle misure ultraespansive, per quando graduale, provochi alla fine qualche brusco contraccolpo.
Si rivede la volatilità
Nel 2017 i livelli di volatilità si sono mantenuti molto bassi, eccetto qualche fiammata, proprio in virtù delle politiche monetarie ancora accomodanti e dei messaggi rassicuranti giunti dopo ogni riunione. Nel corso del 2018 potremmo assistere invece a movimenti interessanti, come in parte già avvenuto a cavallo tra gennaio e febbraio.
E senza dubbio, in questo quadro, non si può trascurare il fattore politico. Se il 2016 è stato dominato dalla sorpresa e da eventi che pochi credevano sul serio che potessero avverarsi – la vittoria della Brexit al referendum di giugno nel Regno Unito e l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti a novembre – il 2017 si è fatto carico di rassicurare i mercati tramutando in realtà le loro attese: nessuno sconquassante colpo di scena dal voto in Olanda, in Francia e in Germania.
Non per questo i rischi politici nell’area euro sono venuti meno, anzi. I punti di innesco di una nuova possibile detonazione restano per ora la regione spagnola della Catalogna e l’Italia, con le elezioni per il rinnovo del Parlamento in calendario domenica 4 marzo. Stesso giorno in cui si dovrebbero conoscere i risultati del referendum attraverso cui gli iscritti al partito tedesco SPD faranno sapere se accettano o no l’intesa con la CDU di Angela Merkel per la nascita del nuovo governo di Grande Coalizione.
Investire in obbligazioni con gli ETF
Tutto ciò considerato, con l’azionario di nuovo sull’ottovolante e i rendimenti obbligazionari che provano a risalire in scia al riemergere dell’avversione al rischio presso gli investitori, vale forse la pena di ragionare sulle opportunità che in questo momento offre il reddito fisso, sempre in un’ottica di diversificazione degli investimenti.
In tema obbligazionario, UBS Asset Management va incontro agli investitori proponendo una vasta gamma di Exchange Traded Funds che replicano i titoli governativi di area euro, Stati Uniti e Paesi Emergenti.
L’UBS ETF (LU) Bloomberg Barclays EUR Treasury 1-10 UCITS ETF, per esempio, mira a replicare la performance del Bloomberg Barclays EUR Treasury 1-10 Bond Index, un indice che comprende i titoli emessi dagli Stati membri dell’Eurozona con una scadenza residua di almeno un anno ma non superiore a 10 anni. Andando più nello specifico, c’è l’UBS ETF (LU) Markit iBoxx € Germany 1-3 UCITS ETF (EUR) A-dis, il cui indice di riferimento include le obbligazioni a breve scadenza emesse dalla Germania.
Dall’altra parte dell’Atlantico si posiziona l’UBS ETF (LU) Barclays Capital US 1-3 Year Treasury Bond UCITS ETF, il cui obiettivo è quello di replicare la performance del Bloomberg Barclays US 1-3 Year Treasury Bond Total Return, che include i titoli del Tesoro emessi dagli Stati Uniti con una scadenza residua di almeno un anno ma non superiore ai tre. Per scadenze più lunghe c’è invece l’UBS ETF (LU) Barclays Capital US 7-10 Year Treasury Bond UCITS ETF: l’indice replicato, in questo caso, comprende i buoni del Tesoro emessi dagli Stati Uniti con una scadenza residua di almeno sette anni ma non superiore a 10 anni.
L’universo obbligazionario emergente
Nel novembre del 2017 UBS Asset Management ha ampliato la sua gamma di ETF fixed income sui mercati emergenti quotando su Borsa Italiana l’UBS ETF J.P. Morgan USD EM Diversified Bond 1-5 UCITS ETF, il primo ETF che consente di prendere esposizione in modo diversificato su tutto l’universo obbligazionario dei Paesi Emergenti: non solo titoli di Stato ma anche emissioni corporate e sovranazionali.
Lo strumento replica il J.P. Morgan USD EM Diversified 3% capped 1-5 Year Bond Index, indice composto da bond sovrani, quasi sovrani e societari dei Paesi Emergenti, espressi in dollari e con taglio superiore ai 500 milioni. Un significativo contributo alla diversificazione è dato dal peso di ogni singolo Paese in portafoglio, che non può eccedere una quota del 3% complessivo.
Sono inoltre escluse le obbligazioni societarie con un rating inferiore a B-. La metodologia di diversificazione limita i pesi assegnati ai Paesi più grandi, riducendo la concentrazione del singolo emittente e garantendo una maggiore distribuzione dei pesi.
Pietro / Febbraio 16, 2018
Buongiorno Raffaele,
volevo commentare le tue preziose osservazioni riguardanti la strategia del VIX che mi trovano parzialmente d’accordo/disaccordo.
La volatilità e la gestione del VIX sono sicuramente difficili, ma rappresentano una strategia correlata negativamente agli indici azionari e quindi, se presa in piccole dosi e con competenza, può risultare utile per fare profitti anche quando il mercato “non gira”. E’ chiaro che non è facile e può essere molto pericolosa, ma chi va a leva su una strategia del genere gioca alla roulette russa con 5 proiettili inseriti su 6 e i recenti trascorsi hanno visto, come affermavi tu, lo sfracellarsi di alcuni fondi.
Ma andare Short per sfruttare l’effetto Contango, il passare a Long per sfruttarne gli Spike e l’intelligenza di restare Neutral nei momenti in cui il mercato è poco decifrabile evitando rischi inutili, non può essere dettato da considerazioni soggettive ma da studio supportato da modelli quantitativi sottostanti.
Se i modelli sono solidi si possono avere delle buone opportunità che in alcuni casi hanno portato dei significativi guadagni e hanno coperto quando era necessario coprirsi.
Non è una strategia da bocciare, anzi è da gestire con la consapevolezza che non è per tutti.
Pietro
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