Orgoglio elvetico o pregiudizio italico? Spiace dirlo, ma oggi prevale ancora il secondo. Malgrado infatti la lunga lista di accordi siglati dalla Svizzera, nel solco della trasparenza tracciato dagli organismi internazionali (OCSE in primis), per molti il Paese è ancora il non plus ultra dei paradisi fiscali, tanto che alcuni professionisti sconsigliano di aprirvi conti nel timore di eventuali raid da parte delle autorità fiscali o giudiziarie.
Tutta un’altra Svizzera
In realtà, negli ultimi anni la situazione è profondamente mutata rispetto a questa immagine vetusta, da cliché di altri tempi. L’Italia, lo ricordiamo, ha stipulato o rinegoziato le convenzioni contro le doppie imposizioni con Svizzera, Singapore, Hong Kong, Lussemburgo e Panama e firmato accordi bilaterali per lo scambio di informazioni. L’OCSE, poi, al fine di contrastare l’evasione fiscale internazionale, ha adottato uno standard per lo scambio automatico delle informazioni finanziarie (CRS), che prevede l’obbligo per le autorità fiscali degli oltre 100 Paesi aderenti di scambiarsi i dati finanziari dei soggetti non residenti, trasmessi loro da banche, assicurazioni e SGR.
L’evasore ha sempre meno posti in cui occultare il proprio denaro, e per farlo può solo affidarsi a personaggi spregiudicati sostenendo costi altissimi, con il rischio peraltro di non tornare più in possesso dei suoi soldi e di non riuscire mai a goderne. Ma tutto questo oramai è completamente estraneo alla Svizzera che, lo ribadiamo, è passata al “lato chiaro della forza”.
Lo scambio automatico? Funziona
Qualche settimana fa, l’Associazione Svizzera dei Banchieri sottolineava come la collaborazione con i Paesi OCSE stia funzionando pienamente. A circa nove anni dall’inizio della lotta dei Paesi del G20 all’evasione fiscale, le banche svizzere sono riuscite a mettere in atto per tempo e correttamente lo scambio automatico di informazioni, malgrado la complessità e i costi elevati. Si stima infatti che l’attuazione di questa riforma epocale sia costata alle banche 500 milioni di franchi svizzeri.
Le informazioni trasmesse dagli istituti elvetici alle autorità fiscali estere includono i dati anagrafici dei correntisti, l’indirizzo, il codice fiscale, il numero di conto, il nome della banca e l’ammontare degli averi. Il presidente dell’associazione Herbert Scheidt ha fatto sapere che tutti gli istituti elvetici applicano lo scambio automatico di informazioni: nessun correntista straniero, quindi, potrà mai più occultare i suoi averi in Svizzera.
Controlli sempre più stringenti
A seguito della serie di riforme normative intercorse dal 2009 al 2016, la Svizzera si è trasformata da Paese nel quale non ci si preoccupava troppo di fare luce sull’origine del denaro a Paese in cui invece è assolutamente necessario appurarne la provenienza fiscalmente lecita. In particolare, il rafforzamento dell’articolo 305 del codice penale, che considera l’infrazione fiscale il reato “anticamera” del riciclaggio, ha offerto nuovi strumenti per contrastare l’evasione e, appunto, il riciclaggio.
Come accennato, la gran parte delle leggi introdotte negli ultimi anni e riguardanti il comparto finanziario è frutto di pressioni di organismi internazionali come il Gruppo di Azione Finanziaria dell’OCSE e l’Unione Europea, che hanno insistito appunto sullo scambio automatico di informazioni. Ma questa apertura delle casseforti svizzere ha avuto un effetto benefico su tutto il settore, liberandolo da “professionisti” dalla dubbia serietà.
Come faceva notare tempo fa Il Sole 24 Ore, proprio grazie alla voluntary disclosure del 2014 sono emerse in superficie tante brutte vicende di fiduciari infedeli. I contribuenti che dovevano regolarizzare quello che non avevano dichiarato al fisco del loro Paese, portandolo in Svizzera, hanno chiesto conto ai fiduciari ai quali si erano rivolti; e mentre i fiduciari in regola non hanno avuto problemi a consegnare la documentazione utile alla regolarizzazione, quelli infedeli e gli abusivi sono stati stanati. E sono venute a galla le magagne. L’opacità, ora, appartiene al passato.
Investire si può (e apre nuove opportunità)
Insomma, aprire un conto in Svizzera non deve più spaventare. Né sarà più un problema per il vostro o la vostra commercialista (se non lo sa, spiegateglielo voi), perché oggi le banche svizzere compilano i quadri relativi alla posizione fiscale di ogni loro cliente secondo quanto prevede la normativa italiana, quindi la documentazione che consegnerete al vostro consulente fiscale sarà già completa e trasparente, e lui (o lei) non rischierà di commettere errori nella compilazione della dichiarazione dei redditi.
Aprire un conto in Svizzera può fra l’altro allargare gli orizzonti di investimento. Un esempio? Un risparmiatore italiano che affida la gestione del suo patrimonio a una società elvetica può avere accesso – sempre e comunque nell’ottica di un’adeguata diversificazione – a strumenti ad alto rendimento (e, come tali, più rischiosi), cosa che in Italia gli sarebbe preclusa per via dei vincoli imposti dalla MiFID II. Ciò non toglie, ovviamente, che si debba essere consapevoli dei propri obiettivi di investimento e, soprattutto, della propria propensione al rischio.
Non sottovalutare la diversificazione geografica
A proposito di rischio: un ulteriore motivo di appeal è rappresentato dalla diversificazione territoriale, che potrebbe tornare non solo utile ma addirittura vitale nel remoto caso di default e ritorno alla valuta nazionale. L’eventuale conto in Svizzera, infatti, rimarrebbe in euro. In definitiva, vale la regola aurea di sempre: conoscersi a fondo e valutare tutte le opzioni per poter esplorare con soddisfazione anche le terre oltreconfine. Le quali, lo ribadiamo, non sono più quella “selva selvaggia e aspra e forte” che erano una volta, tanto tempo fa.