Qualche giorno fa ho ricevuto una chiamata da un vecchio compagno d’università che ora lavora come economista per un fondo istituzionale francese: voleva fare due chiacchiere sull’Italia.
L’azienda per la quale lavora, come molti altri fondi istituzionali, ha investito nel nostro debito pubblico, cioè in titoli di Stato, e si chiede come andrà il suo investimento.
I dubbi degli investitori
Non c’è stato nulla di particolarmente nuovo nel suo ragionamento, che come tutti parte dalla realtà:
- l’Italia è fino ad ora riuscita a mantenere stabile il rapporto debito pubblico/PIL grazie a un notevole sforzo di bilancio, che ha mantenuto il saldo primario (differenza tra entrate e uscite) positivo;
- al momento, le ricette economiche che si vogliono mettere in campo non hanno una chiara copertura e quindi rischiano di compromettere i conti pubblici;
- l’economia italiana – come nel resto dell’Europa – sta decelerando.
Da investitori istituzionali, prima di muoversi, vogliono perciò capire meglio in che modo il nuovo governo affronterà i nodi storici dell’economia italiana: bassa produttività, iniquità del sistema sociale, disparità geo-economica interna (Nord vs Sud), eccetera.
Allo stesso tempo, monitorano con attenzione ciò che succede sui mercati, perché il rischio di contagio è sempre in agguato in una zona monetaria come l’eurozona.
L’impatto sui nostri portafogli
Ora lasciamo i fondi stranieri al loro lavoro e occupiamoci del nostro: i Portafogli AO.
Per il nostro mercato è stata un’altra settimana difficile, e lo schema è sempre lo stesso: quando lo spread sale velocemente le prime a soffrire sono le azioni del settore bancario. Come mai?
Perché il 40% del nostro debito pubblico è nelle mani del nostro settore finanziario e, quando i tassi salgono, il valore degli attivi (cioè i titoli di Stato) scende e vale di meno quando viene utilizzato come collaterale per finanziare le attività come il credito.
Fino a quando il costo del debito si mantiene intorno al 2,5%, in linea con la crescita nominale, lo si può ritenere ampiamente gestibile dall’economia italiana, ma non bisogna neanche sottovalutare i messaggi che arrivano dal mercato. Anche perché gli effetti delle crisi di fiducia si pagano cari e a lungo.
Ad esempio, secondo l’ufficio parlamentare di bilancio1 “l’effetto della crescita dei tassi sulla spesa per interessi durante la crisi ha comportato nel periodo 2011-2016 una maggior spesa per interessi di circa 47 miliardi”.
Davanti a noi non ci sono molte strade: se il governo si accontenterà di qualche punto di deficit in più, i mercati potrebbero tranquillizzarsi; nel caso opposto si ballerà per un po’. Nel frattempo ci consoliamo con le performance dei mercati internazionali.
Come sta andando il tuo portafoglio?
1. Il modello UPB di analisi e previsione della spesa per interessi – di Cecilia Gabbriellini e Corrado Pollastri