Da quando i rendimenti obbligazionari sono prossimi allo zero, la domanda è sempre la stessa: siamo vicini alla fine di un bull market durato più di trent’anni?
La lunga discesa dei rendimenti ha lasciato sul campo davvero poco valore. In Euro, i rendimenti sono bassissimi sia tra i governativi che tra i corporate. Se si vuole aumentare un po’ il rendimento bisogna assumersi qualche rischio in più, o sul fronte valutario, o in termini di rischio di credito, o di duration. Ma ne vale davvero la pena?
Da un punto di vista puramente macroeconomico, il successo del segmento a reddito fisso si è poggiato su tre grandi trend di lungo termine:
- l’apertura di nuovi mercati (nuovi consumatori, produttori e risparmi) grazie alla globalizzazione;
- la riduzione generalizzata dell’inflazione;
- più di recente, l’utilizzo di politiche monetarie non convenzionali come il Quantitative Easing;
Il rapporto causale, tra queste forze, è oggetto di ampio dibattito accademico, sul quale non abbiamo nulla di particolarmente di rilevante da aggiungere. Quello che ci interessa invece è capire quali di questi macrotrend sono validi e come invece è destinato a cambiare lo scenario d’investimento. A prima vista tutti e tre sono ancora vivi e influenti.
La globalizzazione è stata ridimensionata solo a parole
L’elezione di Trump e la vittoria della Brexit, sono stati a lungo eventi commentati come l’inizio di un processo di ridimensionamento della globalizzazione, cioè l’apertura dei mercati di beni e capitali, ma non è così: nel 2017 il commercio mondiale dovrebbe crescere del +3,7%, in netto miglioramento rispetto al +1,6% del 2016.
Mentre gli USA discutono sul NAFTA e l’Europa sulla Brexit, il dinamismo asiatico riesce più che a bilanciare le incertezze occidentali. Dall’altro canto, quando un Paese di dimensioni considerevoli come la Cina decide di aprirsi sempre di più al mondo (ovviamente a modo suo), le incertezze occidentali passano in secondo piano.
Nel corso degli ultimi vent’anni il baricentro della globalizzazione si è spostato in Asia, un’area geografica che entro il 2030 rappresenterà i 2/3 della classe media mondiale. Tutto ciò vuole semplicemente dire nuovi capitali e nuovi mercati in arrivo. Tutti fenomeni che tendono a comprimere i rendimenti.
L’inflazione può restare bassa ancora a lungo
L’inflazione tende ad essere un fenomeno globale e, dal momento che il processo di globalizzazione non è ancora stato messo in discussione, i prezzi dei beni di consumo sono spinti verso il basso più o meno allo stesso modo con cui la forza di gravità ci tiene i piedi per terra.
Attualmente, il mercato stima un tasso d’inflazione medio per i Paesi Sviluppati a cinque anni intorno al 2,0%, in linea con i target delle principali banche centrali e neppure troppo distante dalla media del 2017 (+1,6%). Il mercato si sta sbagliando?
Da un punto di vista strutturale l’inflazione potrebbe oscillare intorno a questi valori ancora per un po’, perché, come ha spiegato la BIS, ci sono diversi fattori strutturali (invecchiamento della popolazione, automatizzazione dei processi produttivi, potere contrattuale dei lavoratori) che rendono il meccanismo relativo alla crescita economica e all’inflazione meno lineare di quanto ci si potrebbe aspettare. In sintesi ciò vuol dire che non basta ridurre l’occupazione per far ripartire i salari, e dunque l’inflazione. Ci vuole qualcos’altro. E forse anche più tempo.
Perciò, se tralasciamo drastici cambi di direzione dell’inflazione (no recessione o inflazione eccessiva), i prezzi al consumo potrebbero salire gradualmente. A quel punto ci troveremo di fronte a due scenari ben distinti:
- se l’inflazione salisse per delle “buone” ragioni (crescita economica), i debitori avrebbero vita più semplice, le banche centrali continueranno ad “accompagnare” il ciclo economico come stanno facendo e bond a lunga scadenza e Borse potrebbero offrire ancora qualche soddisfazione;
- se invece l’inflazione salisse per delle “cattive” ragioni (prezzo del petrolio, ad esempio), la volatilità tornerebbe a farsi sentire; a quel punto il momentum dei mercati potrebbe diventare negativo.
Per il momento sembra prevalere la prima ipotesi.
Il lungo percorso della “normalizzazione”
A priori, la normalizzazione delle politiche monetarie avrebbe dovuto contribuire a rilanciare la volatilità compressa dei mercati, ma così non è stato.
Da inizio anno, tra i Paesi Sviluppati ci sono stati sei aumenti dei tassi d’interesse e una FED meno “attiva” per via del Quantitative Tightening. Il risultato di queste operazioni, invece di creare qualche patema d’animo, ha per lo più portato ad un appiattimento della curva dei tassi d’interesse.
Per alcuni operatori, l’appiattimento della curva è il presagio che il mercato sta iniziando a prezzare una crisi da qualche parte (specialmente negli USA).
Hey, what did you expect?
Quando si alzano i tassi d’interesse, ma comunque si forzano gli operatori ad aumentare il rischio dei propri portafogli per via del QE, il risultato è l’appiattimento della curva. D’altro canto il mercato obbligazionario è strutturalmente in eccesso di domanda e le banche centrali continuano a comprare una fetta consistente di nuove emissioni di debito.
Considerando il livello dei tassi ed i programmi di riduzione di bilancio, questo trend potrebbe proseguire.
Tirando le somme, da un punto di vista puramente macro, i tassi d’interesse a lungo termine hanno buone probabilità di rimanere ancora su questi livelli. Ma se così non fosse sarebbero dolori. Al momento il segmento corporate offre qualcosa in più a fronte di una duration più bassa, ma bisogna tenere presente che il rischio di credito complessivamente è peggiorato.
Il rischio di credito
Quando il costo del denaro è così basso indebitarsi o mantenere il proprio debito costa poco. Fino a quando i rendimenti rimarranno modesti e la crescita (reale) è superiore al costo (reale) del denaro il rischio di solvibilità complessivo del mercato è moderato, anche nei confronti degli attori maggiormente indebitati.
In questo contesto tutto sommato ideale per chi ha problemi di debito (vi sono numerosi casi), gli investitori si stanno accontentando di meno garanzie contrattuali di protezione, a discapito della qualità complessiva del mercato obbligazionario.
In sostanza, a fronte di un livello sempre più alto d’indebitamento, gli investitori si accontentano di un livello di protezione sempre più basso, a fronte di piccolo rendimento. Non proprio il mondo ideale per investire in obbligazioni.
Quindi, che fare?
Il rapporto rendimento/rischio sul mercato sembra molto polarizzato: i rendimenti sono limitati ed i margini di manovra anche.
Dal nostro punto di vista se si realizzasse lo scenario centrale caratterizzato da una buona crescita e da una modesta inflazione (probabilità intorno al 70%), i rendimenti offerti dei titoli ad elevata duration e corporate potrebbero regalare ancora qualche soddisfazione.
Se l’inflazione dovesse spingere più del previsto (probabilità 15%) sarebbe un risveglio amaro per i bond ad eccezione di quelli legati all’inflazione. Se ci fosse un rallentamento improvviso della crescita economica (10%) a guadagnare sarebbero ancora i cosiddetti safe assets.
Tirando le somme, per quanto riguarda i portafogli tattici, è preferibile diversificare il più possibile con qualche azzardo tattico (ad esempio il segmento corporate USA), probabilmente controbilanciato da un po’di protezione (un mix tra oro e cassa).
Nelle prossime puntate declineremo questa visione sui singoli portafogli.