È ufficiale: Donald Trump si prepara a tornare alla Casa Bianca per un secondo mandato (era già stato eletto presidente nel 2016). Il candidato Repubblicano ha battuto la Dem Kamala Harris e sarà la seconda persona nella storia USA (dopo il democratico Grover Cleveland) a ricoprire la carica di presidente per due mandati non consecutivi. Quella repubblicana è una vittoria netta, che riguarderà non solo la Casa Bianca, ma anche – con ogni probabilità – entrambi i rami del Congresso.
È inoltre la prima volta in vent’anni che i repubblicani vincono anche il voto popolare. Il fatto che il processo elettorale si sia concluso rapidamente e con un esito chiaro è positivo per i mercati, che temono l’incertezza più di ogni altra cosa. E infatti la volatilità implicita attesa dal mercato per il periodo successivo al voto è calata.
Chi ha scelto The Donald? Uno spaccato sulla demografia del voto
Il candidato repubblicano è riuscito a intercettare voti in diversi segmenti della popolazione che sembravano inizialmente più inclini a un voto democratico. Primo tra tutti quello delle donne, che non si sono schierate in massa in favore di Harris e che anzi, avevano dato più voti a Biden quattro anni fa. Ma Trump è riuscito a fare breccia anche tra i giovani fino a 30 anni e tra le minoranze etniche, vincendo con buoni margini in Stati con forti presenze di cittadini afro-americani o ispanici.
I Paesi occidentali alleati degli Stati Uniti – Europa in primis – si interrogano ora sulla posizione della nuova amministrazione Trump riguardo a questioni cruciali come il conflitto russo-ucraino e il commercio. Il neoeletto presidente, che si insedierà alla Casa Bianca il prossimo 20 gennaio, ha promesso dazi al 20% sull’import dall’Unione Europea e al 60% sulle importazioni dalla Cina: livelli che non si vedevano dagli anni Trenta del 1900, tanto che l’ISPI (l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) ha soprannominato Trump “The Tariff Man”, l’uomo delle tariffe.
Occhi puntati sulla “tripletta” presidenza-Camera-Senato
La reazione a caldo del mercato azionario americano è stata decisamente positiva. Vero è che una vittoria di Trump era stata in parte già scontata, ma a incidere sull’euforia del dopo voto ha contribuito la probabilità del “colpo di spugna” Repubblicano, con la conquista non solo dello Studio Ovale ma anche della maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Probabilità che si profilava, appunto, nelle prime ore dopo il voto. Una “tripletta” in tal senso, in effetti, agevolerebbe l’attuazione del programma politico del nuovo presidente e della sua squadra.
Ancora prima della riapertura di Wall Street dopo il voto, già i futures segnalavano la possibilità di un deciso balzo in avanti delle quotazioni dell’S&P 500. Balzo che si è poi puntualmente verificato, con l’indice S&P che ha messo a segno un progresso del 2,53% a 5.928,91 punti, il Dow Jones in rialzo del 3,57% a 43.728,88 punti e il Nasdaq in aumento del 2,95% a 18.983,46 punti. In rosso invece le piazze europee, da Milano a Parigi, da Madrid a Francoforte.
Anche il dollaro ha guadagnato terreno nei confronti delle principali valute (il peso messicano, invece, si è mosso al ribasso) e le quotazioni del Bitcoin (su cui Trump ha espresso ampio sostegno) sono balzate in alto, superando i 75mila dollari. Del resto, per i mercati azionari la vittoria di Trump significa essenzialmente tre cose: taglio delle tasse, deregulation e, appunto, aumento delle tariffe commerciali.
A tutto beneficio degli utili aziendali e dell’economia domestica (in particolare per settori come le società legate alle energie fossili, le banche, le compagnie farmaceutiche e i gestori delle carceri). Questo, almeno, nel breve termine.
Allo stesso tempo, i prezzi del Treasury decennale USA sono scesi, mentre il rendimento è aumentato ai massimi degli ultimi due anni.
Il motivo? La stessa agenda di Trump, che a caldo piace tanto all’equity (un’agenda fatta di aumento della spesa pubblica, dazi doganali, tasse più basse e restrizioni all’immigrazione), potrebbe, a lungo andare, ampliare un deficit di bilancio già importante (attualmente intorno al 7% del PIL) e alimentare un’inflazione che sta finalmente rientrando nei ranghi.
Intanto, la Federal Reserve ha deciso, nella riunione dello scorso 7 novembre, di ridurre i tassi d’interesse dello 0,25%, portando il tasso di riferimento tra il 4,50-4,75%. Un nuovo taglio dunque, ma di misura inferiore rispetto alla riduzione di mezzo punto di settembre.
Per dirla nel linguaggio di Wall Street, i movimenti dei rendimenti ci segnalano che i “Bond Vigilantes” hanno drizzato le antenne: si tratta di investitori in obbligazioni che, con le loro compravendite di titoli di Stato, riflettono i giudizi (in questo caso non brillantissimi) sulle prospettive fiscali di un Paese.
La reazione delle materie prime e dei mercati emergenti
Sul fronte delle commodity, un biglietto verde più forte rende le materie prime denominate in dollari più care per gli investitori internazionali, motivo per cui i prezzi di metalli preziosi e petrolio hanno registrato un calo (compreso l’oro, che resta comunque su livelli molto elevati).
Nemmeno i mercati emergenti – destinati a risentire particolarmente dei dazi commerciali e dell’inasprimento delle politiche sull’immigrazione – sono parsi in vena di festeggiare. Il peso messicano, considerata la valuta più vulnerabile alle politiche commerciali annunciate da Trump, ha segnato un calo del 3,5% subito dopo il voto, contribuendo a far registrare al paniere delle valute dei mercati emergenti la sua peggior giornata dal febbraio 2023.
Anche gli indici azionari cinesi a Hong Kong sono scesi, scontando tariffe punitive per la seconda economia più grande del mondo. E l’indice MSCI Emerging Markets ha interrotto tre giorni di guadagni.
Sul lungo termine, la politica ha un impatto limitato per i mercati
Insomma, la sensazione è che Trump sia percepito come positivo per la crescita economica e per gli asset rischiosi nel breve termine. Ma nel medio termine potrebbe riaccendere il campanello dell’inflazione e portare a una maggiore incertezza geopolitica, aumentando le tensioni commerciali e perseguendo una politica molto restrittiva sull’immigrazione.
In ogni caso, quelle fatte fin qui sono considerazioni “a caldo”, che riguardano impatti e reazioni di breve periodo, probabilmente destinati a esaurirsi nel giro di qualche settimana o mese. Il concetto di fondo, quello davvero importante per chi si trova a investire i propri risparmi, resta immutato: i mercati azionari globali tendono a salire su orizzonti temporali lunghi, indipendentemente da chi sieda nello Studio Ovale.
Vediamolo con un esempio concreto. Assumiamo di aver investito 100mila dollari nel 1950 ad oggi e vediamo cosa sarebbe successo all’indice S&P 500:
- Investendo solo negli anni in cui alla Casa Bianca c’era un presidente repubblicano
- Investendo solo negli anni di presidenza democratica
- Lasciando il capitale sempre investito