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Direct indexing, il lato fiscalmente affascinante dell’indicizzazione diretta

Il direct indexing è una strategia d’investimento che consente all’investitore di costruire da zero il suo personalissimo indice, sul modello di uno già esistente sul mercato. L’idea è che in questo modo possa orientare i suoi investimenti verso il settore e/o il tema che ritiene più convincente e/o più interessante. Le quotazioni del gas in aumento vi fanno desiderare una maggiore esposizione ai titoli energetici? Potete ottenerla. Volete invece evitare del tutto le compagnie petrolifere per contribuire alla lotta contro il riscaldamento globale? Prego, accomodatevi.

Ma, come vi abbiamo già ampliamente raccontato, al di là della personalizzazione, ad attirare gli investitori verso la cosiddetta “indicizzazione diretta” è soprattutto la possibilità di ottenere una certa, apprezzabilissima, ottimizzazione fiscale. Soprattutto se si ha un patrimonio di un certo livello da investire.

Ora, la domanda da parte vostra giustamente potrebbe essere: perché ci state parlando di nuovo di indicizzazione diretta?

 

Indicizzazione diretta: il punto sull’investimento

Perché sul tema sono tornati, con un interessante punto sui numeri, Nate DiCamillo e Morgan Haefner in un recente approfondimento su Quartz. Innanzitutto, una puntualizzazione: gli investitori che hanno mostrato una predilezione per il direct indexing sono stati finora soprattutto di fascia elevata.

Acquistare non le quote di un fondo ma tanti titoli singoli è infatti un’operazione alquanto dispendiosa. Gli investitori devono comprare un gran numero di titoli per comporre un indice. Il che impone un minimo che in genere si attesta sui 100mila dollari, con una commissione di gestione più elevata, solitamente compresa tra lo 0,15% e lo 0,35%. Non proprio bazzecole.

Ma già nel nostro precedente post vi abbiamo raccontato come la tecnologia stia contribuendo ad abbassare il prezzo del biglietto d’ingresso, aprendo le porte di questa strategia d’investimento anche a investitori più piccoli. I quali possono, anche loro, far fruttare il vantaggio fiscale: che consiste nella chance di vendere gli asset meno performanti pagando così meno tasse sui capital gain. Ma ci torniamo tra poco.

 

 

Breve storia del direct indexing

Come ricostruito da DiCamillo e Haefner nel loro approfondimento, nel 1976 Jack Bogle, fondatore di Vanguard Group, ha dato vita all’index investing, consentendo a chiunque di investire in fondi comuni d’investimento. Nei primi anni Novanta, la società Parametric ha fatto un passo in avanti, rilasciando il primo prodotto di indicizzazione diretta.

All’incirca dieci anni dopo, nel 2003, Parametric è stata acquisita dal fondo comune d’investimento Eaton Vance. E arriviamo così ai giorni nostri: dal 2020 al 2022, 11 grandi società d’investimento – fra le quali Goldman Sachs, BlackRock e JP Morgan – hanno realizzato 12 grandi acquisizioni nel settore dell’indicizzazione diretta.

Morgan Stanley, per esempio, si è aggiudicata Eaton Vance. Ma è stata Vanguard a realizzare la sua prima acquisizione in assoluto, acquistando la fintech di indicizzazione diretta Just Invest. E Fidelity ha costruito il suo prodotto di indicizzazione diretta testandolo in versione beta.

 

Sostenibile sì, ma sul piano fiscale

Abbiamo accennato ai vantaggi fiscali. Gli investitori non possono ottenere le stesse agevolazioni in un etf tradizionale, perché il fondo non vende per loro i titoli sottoperformanti. Per ottenere il medesimo tipo di agevolazioni fiscali, devono aspettare che l’intero fondo vada giù.

E il vantaggio fiscale è il vero grande motivo d’attrazione verso questa strategia. Come conferma la società di ricerca sulla gestione patrimoniale Cerulli, nel 93% dei casi si predilige l’indicizzazione diretta soprattutto per l’ottimizzazione fiscale, mentre una quota molto minore di intervistati (60%) ha indicato una spinta ispirata ai valori e ai criteri Esg.

“A quanto pare”, commentano i due autori dell’approfondimento targato Quartz, “il risparmio di denaro è un incentivo maggiore rispetto alla salvaguardia del pianeta”.

 

Il direct indexing ha senso per un investitore retail?

Vi ricordate? Ci siamo già posti questa domanda e abbiamo già provato a darvi una risposta. Più no che sì, vi abbiamo detto, se teniamo a mente il risparmiatore medio italiano – tipicamente non proprio ferrato sui temi finanziari – e se pensiamo che ormai esistono migliaia di etf che permettono di investire in qualsiasi settore o sottosettore, ovunque, in modo semplice e a costi contenuti.

Il progressivo abbassamento delle soglie d’ingresso in virtù dell’evoluzione tecnologica crea però un’occasione per quegli investitori più esperti e interessati a strategie sofisticate e ultra-personalizzabili. Sempre e comunque, si spera, con l’ausilio di un serio e preparatissimo consulente finanziario.

 


 

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