Mentre in Europa prosegue lo psicodramma energetico – che si svolge parallelamente al dramma vero, quello della guerra in Ucraina – con la Russia intenzionata e mantenere i flussi di gas al minimo e con il Future del gas scadenza settembre 2022 che ad Amsterdam ha superato i 200 euro per megawattora, dall’altra parte dell’Atlantico prosegue la stagione dei conti trimestrali.
E Big Oil si prepara a registrare utili record. Ben 50 miliardi di dollari nel secondo trimestre dell’anno: una performance stellare che però, secondo Bloomberg, potrebbe contenere il germe del declino.
“L’impennata dei profitti”, spiegano Kevin Crowley, Laura Hurst e François De Beaupuy in un recentissimo articolo, “è il risultato diretto dei prezzi elevati dell’energia, i quali hanno alimentato l’inflazione, messo sotto pressione i consumatori, fatto salire il rischio di recessione e spinto l’introduzione di tasse a pioggia. In questa situazione di turbolenza politica ed economica, gli azionisti potrebbero essere costretti a ridimensionare le loro aspettative di aumento dei rendimenti”.
Big Oil: grandi crisi portano grandi profitti
Exxon Mobil, Chevron, Shell, TotalEnergies e BP stanno battendo i guadagni del 2008, l’anno famigerato in cui la crisi finanziaria fece quasi crollare l’economia globale. Ma fu anche l’anno in cui i prezzi del petrolio arrivarono quasi a toccare i 147 dollari al barile. E allora perché oggi va meglio di allora?
“Perché”, spiegano gli esperti di Bloomberg, “non è stato solo il greggio a salire durante la crisi generata dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia: anche i prezzi del gas naturale e i margini di raffinazione hanno battuto una serie di record”.
Molti dei principali mercati si sono trovati a corto di capacità di raffinazione a causa di una combinazione di chiusure, investimenti bloccati dalla pandemia, sanzioni alla Russia e decisione della Cina di limitare le esportazioni di petrolio.
Nel secondo trimestre, lo US Gulf Coast’s 3-2-1 crack spread, una misura approssimativa dei margini di profitto derivanti dalla raffinazione di un barile di greggio, è esploso fino a raggiungere una media di 48,84 dollari, più del doppio rispetto a un anno prima. Una misura simile per l’Europa – il TotalEnergies’ variable cost margin – ha triplicato il suo valore arrivando a 145,70 dollari.
Secondo l’Energy information administration, agenzia statistica e analitica del Dipartimento dell’energia degli Stati Uniti, la raffinazione rappresenta oggi il 26% del costo di un gallone di benzina negli Stati Uniti, rispetto a una media del 14% nel decennio precedente. Nota a margine: un gallone, ci fa sapere Google, equivale a circa 3,8 litri.
Ma i margini stellari non sono destinati a durare
Alla luce della discendente capacità di spesa dei consumatori, probabilmente questi margini di raffinazione da capogiro non dureranno a lungo. Da qui una certa cautela da parte delle aziende, nonostante l’incremento degli utili.
E attenzione: come fanno notare gli esperti di Bloomberg, gli elevati profitti non sono solo l’esito dell’ampia ripresa dei prezzi delle materie prime. I colossi stanno anche spendendo molto meno rispetto all’ultima volta che il petrolio ha superato i 100 dollari al barile. “Le spese in conto capitale si stanno avvicinando a una previsione di 80 miliardi di dollari quest’anno, la metà del livello del 2013”. E dal 2014 la tendenza dei costi è stata tutta al ribasso.
A nulla sono valsi quindi, almeno finora, gli appelli di leader politici come il presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden per ottenere un incremento della produzione nazionale. Due le ragioni dietro a ciò:
- cautela da parte dei manager circa la persistenza di prezzi così alti;
- molta prudenza rispetto all’idea di impegnarsi in grandi progetti fossili, di fronte al fatto che i fossili in questione dovrebbero – almeno secondo le intenzioni e stanti le allarmanti prospettive climatiche – andare presto fuori moda, a tutto vantaggio di una transizione verso fonti energetiche pulite.
Ma l’inflazione è un tipo di boomerang che prima o poi colpisce tutti: ed ecco quindi che i colossi petroliferi potrebbero non riuscire a mantenere la spesa in conto capitale così bassa ancora a lungo, proprio per via del contesto inflazionistico. Senza contare il ritocco al rialzo della tassazione a carico del settore in corso in molti Paesi.
Investire in Big Oil: quanto ha senso?
Lo sappiamo che molti di voi vorrebbero sentirsi dire “punta su questo o su quest’altro titolo”. Comprare Canistracci Oil, per citare un grandissimo classico della cinematografia di Borsa (“Mia moglie è una strega”, Castellano&Pipolo, 1980, scena epica). Ma, lo sapete, non è nel nostro stile. Noi possiamo solo rinnovare la raccomandazione a diversificare.
Ricordandovi però che, considerata l’oramai inevitabile trasformazione dell’economia nel senso della sostenibilità, sarà lì che sempre di più si concentreranno opportunità e performance. Siamo in una fase di passaggio, che ci impone di essere ancora più flessibili: aperti alla tradizione, certo, ma sempre più sintonizzati sull’innovazione.
Dopotutto, già oggi i dati dimostrano che investire secondo principi Esg non significa fare beneficenza e che la sostenibilità non è una moda. Quindi, sì: l’investimento sostenibile paga.