Avete mai sentito parlare di direct indexing? É un tipo di investimento passivo che esiste da anni nella fascia wealth, ma che adesso si sta diffondendo rapidamente tra gli investitori retail – soprattutto negli Usa, ma ultimamente anche in Europa – grazie all’evoluzione tecnologica e alla collaborazione tra colossi bancari e aziende fintech. Tanto che da più parti viene già definito come la “naturale evoluzione degli ETF” e diversi grandi attori del mondo finanziario, tra cui Vanguard, BlackRock, Morgan Stanley, Fidelity, hanno recentemente acquisito aziende Fintech dotate della tecnologia necessaria ad attuare il direct indexing.
Di cosa stiamo parlando esattamente?
Si tratta di una forma di investimento passivo, dove cioè il gestore non fa altro che replicare un indice di mercato, come succede appunto con gli exchange traded funds. Ma se l’ETF è di fatto un fondo che a sua volta investe nei titoli che compongono l’indice di riferimento, attraverso le piattaforme di direct indexing il risparmiatore – o più plausibilmente il consulente finanziario che si occupa dei suoi investimenti – acquista direttamente i titoli necessari a replicare l’indice. Con il direct indexing, in pratica, sul conto dell’investitore non ci sarà alcun “contenitore” finanziario come può essere per esempio un ETF, ma compariranno direttamente le centinaia di titoli che compongono l’indice prescelto.
Il funzionamento del direct index però non è semplice come potrebbe sembrare a prima vista. Ed è per questo che per funzionare anche sui piccoli patrimoni ha avuto bisogno dell’aiuto della tecnologia.
Pensiamo per esempio a un investitore medio-piccolo che vorrebbe replicare l’andamento dell’S&P 500: per lui acquistare tutti i 500 titoli che lo compongono – tra cui colossi come Amazon, le cui azioni valgono attualmente oltre 3.200 dollari l’una – sarebbe impensabile. Oggi però questo è reso possibile da piattaforme di esecuzione tecnologicamente evolute che riescono ad acquistare anche solo piccole frazioni di singole azioni, operando su vastissime quantità di clienti e titoli.
Non solo. Per poter replicare con un capitale ridotto l’andamento di indici costituiti da centinaia o migliaia di titoli, servono algoritmi in grado di costruire portafogli che “mimano” il comportamento di questi indici possedendo solo un sottoinsieme astutamente selezionato dei titoli che lo compongono. Altrimenti la somma necessaria per acquistarli tutti sarebbe comunque eccessiva. Questi algoritmi esistono da tempo, ma l’attuale diffusione del machine learning e di piattaforme tecnologiche che lo rendono operativo con grande efficienza hanno facilitato la loro diffusione.
Ma perché mai andare a complicarsi la vita in questo modo? In realtà, alcune argomentazioni a favore ci sono – le approfondiremo tra poco, ma essenzialmente si tratta di vantaggi a livello fiscale e di personalizzazione – ma è vero che il direct indexing tende a complicare un po’ la faccenda: l’ETF tutto sommato è un modo più semplice di replicare un indice. Insomma, come avrete intuito il direct indexing non è una soluzione che si adatta proprio a tutti: diciamo che per apprezzarlo occorrono una certa dimestichezza con i mercati finanziari o una spiccata passione per gli investimenti o ancora un’esigenza particolare di personalizzazione del proprio portafoglio.
Quali sono i vantaggi?
Lo abbiamo anticipato, sono essenzialmente due. Partiamo dalle tasse. Possedere direttamente i titoli, senza passare per un ulteriore veicolo finanziario, permette di diminuire gli oneri fiscali, visto che le perdite su alcuni titoli compensano i guadagni su altri, riducendo l’imponibile. Con un portafoglio di fondi o ETF, invece questo non avviene: sui guadagni si pagano le tasse, mentre sulle perdite si matura un semplice credito d’imposta. Non c’è compensazione.
Poi c’è la personalizzazione. Se un investitore desidera replicare l’andamento di un indice escludendo, per svariate ragioni, alcune società particolari, con il direct indexing può farlo. Facciamo un esempio concreto. Voglio replicare l’S&P 500 ma escludendo Facebook, perché non sono d’accordo con la sua condotta etica dopo i numerosi scandali che l’hanno travolto. Un buon algoritmo di direct indexing è in grado di replicare accuratamente l’indice S&P 500 anche senza acquistare il titolo Meta (holding che possiede Facebook). Lo stesso discorso vale per un investitore particolarmente sensibile ai fattori ambientali, sociali e di governance, che può decidere liberamente di escludere dal suo portafoglio aziende controverse su queste tematiche.
Per concludere: il direct indexing ha senso per un investitore retail?
Più no che sì, se consideriamo il piccolo risparmiatore medio italiano – tipicamente non proprio ferrato sui temi finanziari – e se pensiamo che ormai esistono migliaia di ETF che permettono di investire in qualsiasi settore o sottosettore, ovunque, in modo semplice e a costi contenuti.
Ma il fatto che le soglie di ingresso per il direct indexing si stiano abbassando a vista d’occhio grazie all’evoluzione tecnologica lo rende indubbiamente un’opzione sul tavolo. Specialmente, almeno all’inizio, per investitori esperti e interessati a strategie sofisticate e ultra-personalizzabili. E magari – auspicabilmente – passando per un consulente finanziario che utilizzi questa tecnica per realizzare un portafoglio a misura del suo cliente.
Stefano Colucci / Febbraio 10, 2022
Basterebbe cambiare la normativa fiscale sugli OICVM, ovvero fondi sicav e etf e renderli equiparati alle azioni e bond
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Renato / Febbraio 13, 2022
Con tutti le tipologie di investimenti si dovrebbero compensare minusvalenze e plusvalenze… Il sistema attuale mi sembra solo un trucco per far pagare un po’ di più
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Paolo Gai / Febbraio 11, 2022
Se l’alternativa è tra un Etf che replica un indice e il possedere tutti i titoli di quell’indice c’è indifferenza fiscale: infatti anche all’interno del portafoglio dell’Etf le perdite di un titolo si sommano algebricamente con i guadagni di un altro e il NAV dell’Etf riflette la somma totale di guadagni e perdite di tutti i titoli.
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