Questa settimana i rendimenti del Tesoro USA a due anni hanno toccato un minimo storico. Perché? Perché gli investitori sono alla ricerca di un posto a breve termine nel quale mettere la crescente quantità di denaro a disposizione. Un bel mucchietto che dovrebbe ulteriormente aumentare di dimensione nei prossimi mesi, considerato l’imponente piano di stimolo economico anti-Covid in vista (1.900 miliardi di dollari, parrebbe).
Ma di questo minimo storico pochi si sono accorti, presi come sono dall’altra estremità della curva dei rendimenti: ovvero dalle scadenze più lunghe, che invece stanno subendo la pressione al rialzo del cosiddetto “reflation trade” innescato dalle attese di un ritorno dell’inflazione.
Sì perché, dopo che nel 2020 le campane per l’inflazione erano state lì lì per suonare a morto, ecco che nel 2021 torna il tema della reflazione.
Di cosa parliamo quando parliamo di “reflazione”? Lo vediamo subito.
Una nuova epidemia in città
Vi sarà capitato, almeno una volta nella vita, di vedere il film d’animazione “Balto”. E forse saprete che è ispirato a una storia vera. Era l’inverno del 1925 quando a Nome, in Alaska – quindi non proprio in una località ai tropici, diciamo – scoppiò un’epidemia di difterite che fece diverse vittime tra i bambini.
Si rese quindi di vitale importanza il procacciamento della relativa antitossina per salvare chi rischiava la stessa tragica fine. Nella praticamente totale assenza di collegamenti dovuta al maltempo, fu una staffetta di cani da slitta ad assicurare nel giro di pochi giorni l’arrivo in città del siero.
Quasi cento anni dopo, l’economia mondiale si è ammalata per colpa di un’altra grave epidemia, stavolta di SARS-CoV-2, e un’altra staffetta si è resa necessaria per trarla in salvo. Fra i sintomi economici della malattia c’è la deflazione. Che, lo ricordiamo, è il contrario dell’inflazione.
Cos’è, esattamente, la deflazione?
Consiste in una diminuzione del livello generale dei prezzi: il fenomeno opposto si definisce, appunto, inflazione. La deflazione è dovuta alla debolezza della domanda di beni e servizi, una debolezza che ovviamente fa da freno alla spesa dei consumatori e delle imprese. Queste ultime, in particolare, non riuscendo a vendere a determinati prezzi una parte dei beni e dei servizi, provano ad abbassare i prezzi stessi.
Ma questa revisione al ribasso finisce con l’incidere sui ricavi, che pure scendono: non resta che ridurre i costi. In che modo? Tagliando quelli per l’acquisto di beni e servizi da altre imprese e quelli per la forza lavoro e facendo meno ricorso al credito. Tutto ciò, come si può intuire, alla lunga crea qualche problema non propriamente trascurabile.
Ed è per questo che va somministrata una cura, generalmente sotto forma di iniezione di denaro.
Come funziona la reflazione
La reflazione consiste proprio in quell’intervento – o insieme di interventi – per riportare l’economia, e in modo particolare il livello dei prezzi, verso la tendenza a lungo termine dopo una scivolata verso il basso. La terapia opposta si chiama disinflazione e serve a riportare l’economia, e in particolare il livello dei prezzi, alla linea di tendenza a lungo termine dopo una fiammata verso l’alto (dando per assodato che economia e livello dei prezzi tendano a salire nel lungo termine).
Nel primo contesto, quello di una frenata, la “terapia reflazionistica” punta a una ripresa moderata dell’inflazione, proprio attraverso scelte di politica monetaria e/o fiscale volte a contrastare la deflazione e le sue conseguenze. Per estensione, la reflazione finisce quindi con l’indicare anche la fase iniziale di una ripresa dell’economia dopo un periodo decisamente “no”.
Reflazione implica ripresa della domanda di beni e servizi, con le imprese che per tutta risposta tornano ad aumentare produzione e assunzioni (e a seguire, per fronteggiare la risalita dei prezzi dei suddetti beni e dei servizi, anche i salari). Ma la reflazione è una buona cosa anche per i governi: l’incremento dei ricavi delle aziende e dei redditi dei lavoratori comporta infatti da una parte maggiori introiti fiscali e dall’altra minore spesa pubblica, grazie alla riduzione degli interventi di welfare necessari (prendiamo, per esempio, l’attuale cassa integrazione Covid). Insomma, tutto è bene quel che finisce bene. O, almeno, così si spera.