a
a
HomeCAPIRE LA FINANZAFINANZA PERSONALECos’è e come si misura il rischio di un investimento

Cos’è e come si misura il rischio di un investimento

L’argomento “rischio di portafoglio” non si può certo definire eccitante, nemmeno dopo un triplo giro di Barbera.

Ogni volta che capita di attraversare momenti problematici come quello attuale, risparmiatori e investitori tornano a parlare – e a sentir parlare – di rischio. In effetti, per chiunque intenda investire è utile, anzi utilissimo, mettere a fuoco il concetto di rischio, che serve per capire quanto ci si può aspettare che “sobbalzi” il valore di uno strumento finanziario e quanto si può perdere se le cose vanno male o, peggio ancora, malissimo. Ma procediamo per gradi.
 

Che cos’è il rischio negli investimenti?

Negli investimenti, il rischio consiste nella possibilità che il rendimento di un investimento si discosti in peggio dalle attese, fino a comportare la perdita, in parte o in tutto, del valore dell’investimento. Fondamentale è la relazione fra rischio e rendimento: in linea di massima, più grande è l’ammontare di rischio che ci si assume, più grande sarà il rendimento potenziale.

In alcune situazioni – e per brevi periodi – è possibile che a rischi elevati non corrispondano rendimenti elevati: ma è l’eccezione alla regola. Di norma, infatti, per poter ottenere rendimenti positivi (ovvero maggiori di zero) occorre assumersi dei rischi.

La logica sottostante a ogni investimento, infatti, è la ricompensa che si ottiene a fronte:

  • della scelta di rinunciare alla disponibilità di un certo ammontare di denaro per un determinato periodo di tempo;
  • di una dose – piccola, media, grande – di rischio di subire una perdita parziale o totale sul capitale inizialmente investito

Più grande è la rinuncia, con il rischio annesso e connesso, maggiore sarà la ricompensa offerta. Diffidate quindi di chi vi propone rendimenti del 20% annuo per un investimento solidissimo e sicurissimo che guarda, non ti devi proprio preoccupare. State all’erta: come dicono gli addetti ai lavori, non esistono pasti gratis (i famigerati “free lunch”).
 

Il rischio di un investimento si può prevedere?

Fino a un certo punto. Immaginate di avere una super calcolatrice che – cogliendo alcuni aspetti cruciali della realtà (in particolare la presenza di “Cigni Neri”, ossia di eventi estremi, un po’ come la pandemia di Covid-19 in corso) e il comportamento dei vari portafogli in relazione alle diverse situazioni – vi dica:

  • che sul portafoglio A, in un mese, potreste perdere il 10% dell’investimento e che questo evento abbia l’1% di probabilità di realizzarsi;
  • che sul portafoglio B potreste perdere il 2%, sempre con l’1% di probabilità.

I numeri vi restituiscono un’informazione molto importante, ovvero che il portafoglio A è circa cinque volte più rischioso di B, che mostra un potenziale di perdita più limitato, ma sono lungi dall’essere esatti, perché corrispondono soltanto approssimativamente alla realtà, essendo per l’appunto probabilità e non certezze.

Ragion per cui in genere parliamo di “perdita potenziale” e di “rendimento potenziale”: magari un portafoglio sulla carta promette bene (o male), ma sono tanti i fattori e gli eventi che possono poi sorprendere in positivo o in negativo, e nessuno può averne il controllo: quanti di voi, un anno fa, avrebbero scommesso che la pandemia di Covid-19 potesse assumere le proporzioni che purtroppo abbiamo poi visto?

 

 

Investimenti che vai, rischio che trovi

A ciascuno strumento finanziario è associato un certo grado di rischio, che sostanzialmente dipende dalle caratteristiche dello strumento finanziario stesso . Caratteristiche che, in estrema sintesi, si possono ricondurre alle seguenti voci:

  • tipo di strumento (obbligazione, azione e quant’altro);
  • emittente (Stato sovrano, azienda, eccetera);
  • valuta di denominazione (euro, dollaro USA, valute di Paesi emergenti);
  • area geopolitica o settore merceologico;
  • mercato di quotazione (regolamentato, come le Borse, o non regolamentato, come quello cosiddetto “OTC”, cioè non soggetto a una specifica disciplina).

Per esempio, se si investe in azioni ci si assume un rischio imprenditoriale, dal momento che si partecipa al rischio d’impresa dell’azienda o delle aziende prescelta/e, mentre se si investe in obbligazioni ci si assume un rischio di credito, dato che si presta il proprio denaro all’emittente contando che ce lo restituisca maggiorato degli interessi.

Come abbiamo detto tante volte, il risk-free è bello, ma di fatto non esiste: nemmeno nel mattone e nella liquidità, le due opzioni ancora oggi più in voga fra gli italiani.
 

Qual è la morale della storia?

Quando costruite un portafoglio combinando i diversi strumenti finanziari, abbiate poi cura di monitorarlo, perché il rischio varia nel tempo. E, in ogni caso, va affrontato con la testa: come primo passo – ve lo abbiamo già detto tante volte – occorre conoscersi. E capire quanto se ne può sopportare.

 



1 – #ABCFinanza: la mappa dei rischi degli investimenti

Scritto da

Con www.adviseonly.com la finanza non è mai stata così semplice. La nostra missione è spiegarvi il mondo degli investimenti in modo chiaro e senza giri di parole, per rendervi investitori più informati e consapevoli.

Ultimi commenti
  • Avatar

    Accettate una critica a questo articolo?

    La volatilità (quanto il portafoglio può “sobbalzare”) non è
    una misura del rischio!

    Il dizionario italiano (ed il buon senso) definiscono
    rischio come: “possibilità di subire un danno o una perdita”, ben diversa dalla
    definizione accademica (deviazione standard delle variazioni di prezzo).

    Il rischio è infatti ben più che un numero. I rischi che
    conosciamo sono facili da misurare e relativamente facili da gestire
    (diversificazione, limiti alle strategie, …), il problema rimangono le fat
    tails. Un sistema di risk management non può basarsi solo sul calcolo
    quantitativo delle probabilità, perché nessun modello può ricomprendere e
    prevedere tutti i possibili esiti futuri. Le decisioni prese sulla base delle probabilità
    attese funzionano solo se gli eventi passati non hanno un impatto su quelli
    futuri (indipendenti).

    La gestione del rischio dovrebbe piuttosto essere
    qualitativa, ovvero il processo con il quale sono prese le decisioni, perché le
    conseguenze di una determinata scelta sono più importanti delle probabilità.

    La principale favola dei sistemi di risk management, invece,
    è che l’attività sottostante non è importante. Modelli come il VaR sono
    matematicamente eleganti ma fondamentalmente difettosi: eliminano quella parte
    della distribuzione dei rendimenti attesi alla quale siamo invece
    particolarmente interessati, le code. Come dice James Montier: “il VaR è come
    un airbag che è garantito funzionare sempre tranne in caso di incidente!” Un’analisi
    dettagliata del portafoglio non può essere condotta basandosi esclusivamente
    sulle serie storiche dei prezzi di mercato.

    • Avatar

      Certo che accetto le critiche!
      E sono totalmente d’accordo che la volatilità non è una buona misura di rischio.
      Infatti ne calcoliamo diverse altre, che si concentrano, proprio come dici tu, sulle “code” (le “fat tails”, che stimiamo, nei limiti del possibile, abbastanza bene, nel senso che è il focus principale della stima).
      Tuttavia, la volatilità è, a torto o a ragione, un indicatore d’uso comune e ci pare interessante mostrarla e parlarne. E inoltre (scusate l’affondo semi-tecnico), se un’attività ha distribuzione di probabilità (in sostanza la curva che ho disegnato), simmetrica, caso assai frequente ti assicuro (ad esempio tra le azioni), è una misura del grado di oscillazione ordinario di un’attività. Che è un’informazione rilevante, magari proprio da contrapporre a misure estreme con il Max DrawDown atteso.

      I modelli del rischio non possono prevedere puntualmente eventi futuri, ma possono “immaginarne” di estremi, assai più gravi di quelli rilevati in passato. Cioè “uscire” dai limiti dei dati storici: è possibile, eccome, e noi ci proviamo (anche se non sempre riesce, ovvio). Se ti interessano approfondimenti, scrivi a ilblog@adviseonly.com

      Non sono d’accordo circa il fatto che la gestione del rischio debba essere qualitativa, sarebbe come guidare l’auto senza spia del carburante, dell’olio, tachimetro, ecc. Il guidatore è fondamentale, ma occorre un cruscotto, cioè dei dati. E anche se è difficile calcolarli, meglio farlo, avendo ben presente che sono stime, approssimazioni, prendendole un po’ con le pinze.

      • Avatar

        Dal punto di vista “tecnico” posso concordare con la
        risposta, ma rimango dell’idea che tentare di “quantificare” in maniera più o
        meno precisa il rischio (ad esempio con il VaR) porta gli investitore a pensare
        che lo stesso rischio possa essere controllato, cosa molto pericolosa.

        Riguardo a guidare la macchina senza guardare il cruscotto,
        è vero che gli indicatori sono fondamentali, ma per arrivare sano e salvo a
        casa lo è di più il guidatore. Mi ricorda una vecchia diatriba tra Nassim Taleb
        e (credo) Philippe Jorion, forse non sono preciso perché l’episodio risale agli
        anni 1990. Jorion sosteneva che modelli come il VaR erano tutto quello che un
        investitore necessitava per controllare il rischio, e fece l’analogia che con
        una mappa precisa, un altimetro ed una bussola lui avrebbe potuto sorvolare le Alpi
        in un aereo senza finestrino (come faceva il sottomarino in Caccia ad Ottobre
        Rosso!). Al che Taleb rispose che questo poteva essere vero, peccato che l’altimetro
        era rotto e che la mappa non era precisa, quindi magari ogni tanto era meglio
        dare un’occhiata fuori dal finestrino per vedere dove si è…

        • Avatar

          Jorion e Taleb sono agli estremi. Noi cerchiamo di essere ragionevoli e ci collochiamo nel mezzo. Taleb, fra l’altro, pensa sempre ai modelli di rischio nella loro versione più idiota e semplificata, ipotizzando che tutti misurino il rischio a partire da una campana di Gauss… Ma non è sempre così. E lui, che ha fatto il quant per una vita, lo sa bene. Ma gli fa comodo così: un certo atteggiamento estremo e tecnicamente un po’ qualunquista certo aiuta a vendere libri, riciclando idee di Mandelbrot e Embrechts, due pionieri del pensiero economico, statistico e finanziario. Opinione molto personale, ovvio, per la quale mi aspetterò molte critiche, ma pazienza…

  • Avatar

    Premesso che non capisco nulla di finanza perché sono una biologa, come fate a creare la curva (la distribuzione di probabilità)? Che ipotesi usate?
    Complimenti per il blog nel quale mi sonoimbattuta quasi per caso.

    • Avatar

      Facciamo una simulazione. Generiamo tanti possibili scenari finanziari. Poi vediamo con che frequenza si ripetono. Da lì nasce la curva (distribuzione di probabilità) che ho malamente disegnato.
      Come li generiamo questi scenari? con un modello (chiamato Parallel Filtered Bootstrap a regimi), che considera la presenza di eventi estremi, di repentine variazioni di “stato” del mercato, e conseguentemente di intensità di movimento/oscillazione dei vari strumenti, nonché delle modalità con cui si muovono insieme (diciamo correlazione, anche se non usiamo veramente la correlazione).

  • Avatar

    @Raffaele Zenti: Nel grafico hai indicato sull’asse delle ascisse “Rendimento del portafoglio in futuro”.
    Il “futuro” equivarebbe a?
    3 anni? 1 anno? 5 anni? …?
    Cioè qual’è l’orizzonte temporale delle tre variabili di rischio VaR 1%, Volatlitià e Max DrawnDown indicate nei portafogli di AdviseOnly?
    Grazie!

    • Avatar

      Il disegno vorrebbe essere generale, per illustrare il concetto in sé.
      L’orizzonte temporale tipicamente utilizzato da chi misura il rischio va da 1 giorno a 1 anno, ma può essere più lungo (e in qualche caso anche più breve).
      Venendo al nostro caso specifico, gli indicatori che trovi sul sito Advise Only sono con orizzonte 1 mese – sappiamo calcolarli anche su altri orizzonti temporali, ma per semplicità espositiva ci limitiamo a quello che, per esperienza, è un orizzonte ragionevole per controlli ricorrenti.
      Noi internamente consideriamo vari orizzonti, anche contemporaneamente. Ad esempio, nel costruire i portafogli AntiCrisi, o quelli “ad obiettivo”, tipo “Obiettivo Figli”, ci concentriamo soprattutto sul rischio a scadenza, in ottica “cassettista”.
      Domanda interessante: questo filone di discussione è davvero ampissimo e niente affatto banale.

  • Avatar

    Ma le domande “pane e salame” quando arrivano? Siete troppo preparati amici lettori! 🙂

  • Avatar

    Buongiorno,
    forse mi è sfuggito qualcosa e allora me ne scuso.
    Vorrei sapere su quale orizzonte temporale, storico, rilevate i dati di volatilità, rendimento e correlazione che poi utilizzerete per la costruzione dei vari portafogli.
    Grazie
    Andrea R.

    • Avatar

      Distinguiamo:
      1) sul sito, per ogni portafoglio sono presenti stime di rischio atteso sull’orizzonte futuro pari a 1 mese (usiamo 36 mesi di dati storici per alimentare il modello simulativo – Parallel Filtered Bootstrap);
      sono presenti metriche di rischio ex-post su vari periodi da 1 mese all’intera vita del portafoglio;
      2) costruire i portafogli è un’altra storia, non sono costruiti in base a misure di rischio atteso a così breve termine, ma considerando congiuntamente vari indicatori prospettici di rischio,l anche sistemico e considerazioni di natura più qualitativa.
      Le metriche di rischio atteso a breve termine sono una delle molte info da guardare per capire come va il portafoglio, se è il caso di ribilanciarlo, ecc. ma non può essere tutto basato su di esse, almeno per i portafogli che consigliamo ai nostri utenti e clienti, più orientati al lungo termine. Preferiamo un approccio olistico.

      • Avatar

        Ti ringrazio per la chiarezza della tua risposta. E’ più o meno come prevedevo.
        Saluti
        Andrea R.

      • Avatar

        Salve Raffaele,
        chiedo scusa ma avevo cancellato la mia iscrizione a DISQUS e questo ha fatto si che scomparissero anche i miei interventi.
        Ti ringrazio per la risposta chiara e precisa. E’ più o meno
        come immaginavo,
        Ti chiedo ancora una cosa. Ho notato che nei report dei portafogli Express ci sono anche delle allocazioni discrezionali, se mi passi il termine, che si basano su
        considerazioni in merito alla situazione di mercato.
        Questo fa parte della normale prassi di riallocazione dei
        portafogli?
        Grazie
        Andrea

        • Avatar

          Usiamo sempre un approccio sistematico per i portafogli Express:
          – valutiamo una batteria di indicatori quantitativi value e momentum per tutte le asset class (cosa piuttosto innovativa, non è semplice trovare indicatori confrontabili per azioni, bond, commodities…); questo ci dà un quadro complessivo delle prospettive;
          – valutiamo il rischio, sia del portafoglio esistente, che dei vari asset, sia del sistema (rischio sitemico);
          aggiungiamo considerazioni qualitative, spesso cruciali, legate ad esempio alla politica monetaria e al quadro geopolitico;
          – da questo discendono i pesi di portafoglio, che cerchiamo di movimentare lo stretto indispensabile, ma tutte le volte che lo riteniamo opportuno (un approccio alla Rasoio di Occam), per ridurre i costi di negoziazione, mantenendo al contempo semplici i portafogli (non è il caso di avere portafogli con troppi strumenti).

lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.