Proviamo a riprendere da dove ci eravamo lasciati. Ovvero, dai quattro rialzi del costo del denaro operati dalla Fed lo scorso anno, che hanno fatto seguito ai tre del 2017 e portato il tasso di interesse dal corridoio 1,25%-1,5% di inizio 2018 al range 2,25%-2,5% di dicembre. Ebbene, questa serie di interventi ha avuto come effetto un rafforzamento del dollaro USA, che non ha entusiasmato troppo il presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
Oltre che una valuta forte, il biglietto verde è anche la divisa nella quale è denominato il debito dei Paesi emergenti, ai quali questo apprezzamento ha dato un po’ di filo da torcere. La pressione si è allentata con l’arrivo del 2019, quando lo scenario è cambiato di nuovo.
Le decisioni del FOMC
Il 20 marzo il Federal Open Market Committee (FOMC) – braccio esecutivo della Federal Reserve – ha confermato il tasso al livello di dicembre, quindi al 2,25%-2,5%.
Ma soprattutto, la banca centrale USA ha aggiornato il suo “dot plot”, ovvero la tabella con le indicazioni dei membri del comitato di politica monetaria (espresse una volta ogni tre mesi, a marzo, giugno, settembre e dicembre) a proposito di dove, secondo loro, saranno i tassi a fine anno e nei due anni successivi.
Ebbene, il nuovo “dot plot” prevede zero aumenti del costo del denaro nel 2019 al posto dei due che erano stati indicati per quest’anno lo scorso dicembre, poi uno solo nel 2020 e ancora nessuno nel 2021.
Cosa è successo? La Federal Reserve ha seguito – come sempre – gli sviluppi economici e, a fronte del rallentamento in corso in molte aree e delle incertezze nei rapporti tra potenze commerciali e negli equilibri europei (solo per citare due dossier “caldi”), ha deciso di adottare una prudenza maggiore rispetto a quella su cui il presidente Jerome Powell ha comunque molto insistito nel 2018.
Previsioni e crescita economica
Secondo la Federal Reverse, anche l’economia statunitense sta rallentando: nel 2019 crescerà, ma meno rispetto al 2018. Il FOMC ha infatti tagliato le stime di crescita del Prodotto Interno Lordo USA per quest’anno dal 2,3% al 2,1%. Riviste al ribasso anche quelle per il 2020, dal 2% all’1,9%.
La parola di passo, quindi, è più che mai “cautela e pazienza”, sia nei rialzi del tasso di interesse sia, più in generale, nel ritiro del sostegno all’economia. E la Fed è solo una parte del tutto: fra le principali banche centrali, infatti, non è la sola ad aver ammorbidito il suo approccio monetario. L’azione congiunta in questa direzione potrebbe ridare fiato al tessuto economico dalla seconda metà dell’anno in avanti.
Già oggi il contesto appare ancora favorevole, con la crescita globale che, proprio grazie agli emergenti, non è molto lontana dalla media storica, mentre l’inflazione risulta largamente sotto controllo.
Le soluzioni targate UBS ETF
Il rinnovato atteggiamento accomodante della Fed ha alleggerito la pressione sui Paesi emergenti anche perché le banche centrali di queste aree oggi non sono più costrette all’inseguimento con altrettanti rialzi per adeguarsi ai ritmi della banca centrale USA, come invece è avvenuto nel corso del 2018.
Considerando anche il recentissimo deprezzamento del dollaro USA in risposta a una Fed nettamente più “colomba”, il momento può essere propizio per andare a cogliere delle opportunità attraverso soluzioni diversificate come gli Exchange Traded Funds.
Gli ETF di UBS AM, in particolare, offrono un’esposizione ai bond emergenti, governativi o societari, in valuta forte con l’aggiunta del vincolo di investimento massimo per Paese del 3%, utile a evitare rischi di concentrazione specialmente nei Paesi più rappresentati nei tradizionali indici che coprono questa classe d’investimento.
Ma la gamma di UBS contempla anche ETF sui bond emergenti in valuta locale. Su Borsa Italiana sono disponibili tre strategie, per un totale di cinque ETF quotati.
Li vediamo qui di seguito.