Lo sappiamo: la sostenibilità del debito del nostro Paese è uno dei suoi più conclamati punti deboli. Come se non bastasse, la minor crescita certificata pochi giorni fa dall’Istat – tale recessione tecnica – e le incertezze intorno alla gestione dei conti pubblici, non fanno che allontanare l’Italia dal sentiero della riduzione del debito.
Quello che dovrebbe essere uno dei più urgenti problemi da risolvere, sta finendo con l’essere ritardato, rimandato a “data da destinarsi”.
Nelle ultime settimane anche Mario Draghi, durante la sua ultima audizione al Parlamento Europeo, ha ricordato cosa comporta una inefficiente gestione del debito: “Un Paese perde sovranità quando il debito è troppo alto”. In poche parole, le sorti del debitore di turno sono in mano ai suoi creditori: niente di più razionale, ma anche di delicato.
In questi termini la situazione dell’Italia non pare delle peggiori: il 47% del debito pubblico si trova dentro i confini nazionali e il 19,3% è in pancia della BCE (la cui quota è aumentata del 119% dall’avvio del QE appena concluso). Il restante 33,7% è all’estero, quota in calo dal 40% precedente all’era QE, ma comunque significativa. Chi fuori dai confini ne potrebbe risentire? I nostri cugini francesi risultano i più esposti con il 43% (diviso per la maggior parte tra BNP Paribas e Crédit Agricole), seguiti da Germania per il 9% e Belgio all’8%.