Alla fine del 2017 le banche centrali mondiali hanno detto la loro e un fatto pare confermato: siamo ancora lontani dalla piena convergenza nelle politiche monetarie. A metà dicembre la Federal Reserve ha aumentato i tassi di 25 punti base, all’1,25-1,50%, e ribadito la stima di tre rialzi, seppure modesti, nel 2018. Cina, Turchia e Messico hanno risposto con contromosse difensive.
Fermi, invece, i tassi nell’area euro, in Svizzera, in Norvegia e in Gran Bretagna. Qui, la Bank of England – di fronte a un’economia “ostaggio” delle incognite della Brexit e a un’inflazione ben superiore all’obiettivo del 2% – non se l’è sentita di procedere a un nuovo rialzo dopo quello di novembre.
Politiche divergenti
Gli Stati Uniti sono nel bel mezzo di un’importante transizione: l’inflazione modesta e una crescita globale moderata ma sincronizzata rendono possibile il graduale riassorbimento di alcune delle misure eccezionali messe in campo nel corso degli ultimi anni. Da gennaio le soglie per la riduzione del bilancio verranno alzate gradualmente nel corso dell’anno fino a raggiungere la quota di 50 miliardi di dollari nel mese di ottobre.
Bilanci “oversize”
Anche se la Fed ha messo l’accento sulla riduzione delle dimensioni del proprio bilancio e altre banche centrali stanno rallentando il ritmo di accumulo di asset, in generale i bilanci delle banche centrali rimangono molto maggiori di quanto siano mai stati. Ciò continuerà a reprimere il term premium in tutti i mercati obbligazionari, non solo in quelli nei quali il quantitative easing è parte del mix di politiche.
Tassi a zero nell’Eurozona
La Banca Centrale Europea resta qualche passo indietro: i tassi di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali, sulle operazioni di rifinanziamento marginale e sui depositi presso la banca centrale sono rimasti fermi rispettivamente allo 0,00%, allo 0,25% e al -0,40%, come ha deciso il consiglio direttivo il 14 dicembre 2017. E si manterranno su livelli pari a quelli attuali “per un prolungato periodo di tempo e ben oltre l’orizzonte degli acquisti netti di attività”, hanno fatto sapere a dicembre da Francoforte.
Tagli agli acquisti, ma senza esagerare
Per quanto riguarda il quantitative easing, confermata la tabella di marcia annunciata a ottobre: riduzione degli acquisti mensili di attivi da 60 a 30 miliardi di euro al mese a partire da gennaio a fronte del prolungamento del programma “fino alla fine di settembre 2018 o anche oltre se necessario, e in ogni caso finché il consiglio direttivo non riscontrerà un aggiustamento durevole dell’evoluzione dei prezzi, coerente con il proprio obiettivo di inflazione”. Il quale, lo ricordiamo, implica il mantenimento su livelli inferiori ma prossimi al 2% nel medio periodo.
La spina del debito
Nel frattempo non bisogna dimenticare che sul Vecchio Continente uno dei fattori di rischio resta l’ascesa del populismo, con elettorati dominati dall’emotività e difficoltà nell’intraprendere riforme strutturali per migliorare produttività e crescita. La situazione si fa ancor più complicata laddove – come, per esempio, in Italia – ci sono appuntamenti elettorali in vista e un elevato rapporto tra debito e Prodotto Interno Lordo che richiederebbe una crescita più forte.
Gli UBS ETF con copertura valutaria
Ricapitolando: i massicci interventi messi in campo dalle banche centrali negli anni passati e le attuali politiche divergenti nel riassorbimento delle misure di allentamento quantitativo pongono gli investitori di fronte a grandi sfide, soprattutto nell’ambito della gestione valutaria. UBS Asset Management propone sul tema ETF a replica fisica su indici azionari con copertura valutaria: una strategia che consente di ridurre il rischio di cambio e di ottimizzare il rendimento del portafoglio.
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