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Finanza islamica, tra Shari’ah e affari

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Nel mondo islamico anche il business segue i dettami della legge sacra: la finanza islamica è un microcosmo finanziario con regole tutte sue, un mondo di affari sotto l’egida della Shari’ah.


Nel 2010 i musulmani nel mondo erano già 1,6 miliardi, ma il numero dei fedeli dell’Islam è in costante aumento e, secondo una ricerca del Pew Research Center, entro il 2070 i fedeli islamici saranno i più numerosi al mondo, con una crescita del 73%.

La religione islamica basa il suo credo sul Corano e la vita di un fedele musulmano ruota attorno ai dettami di una legge chiamata Shari’ah. La legge islamica detta le regole per l’intero stile di vita di una persona, dal modo di vestire all’alimentazione, passando per le norme di comportamento, definendo quindi ciò che è lecito (e non) nella condotta della propria vita. La Shari’ah si applica dunque a moltissime attività quotidiane e non risparmia nemmeno l’ambito finanziario, che è quindi regolato da alcune norme ben precise, che vanno oltre quelle definite dai cosiddetti regulators istituzionali.

Cos’è la finanza islamica

Quando si parla di finanza islamica si intende l’insieme di strumenti finanziari, istituti giuridici e imprese che seguono i dettami della Shari’ah. In particolare, vi sono alcune caratteristiche principali che riguardano il mondo finanziario islamico. Vediamole insieme.

  • Riba, il divieto di interessi. Il guadagno sugli interessi, secondo la legge islamica, non è lecito in quanto non viene considerato frutto del lavoro proprio. Per questa ragione, la finanza islamica vieta il pagamento degli interessi legati al fattore temporale. La banca, dunque, non può generare alcun profitto dalle attività che riguardano il prestito di capitale, ma a tal proposito vi sono degli specifici contratti, come ad esempio il contratto di Musharakah in cui entrambe le parti si impegnano a condividere profitti e perdite. Infatti, più in generale, vi sono due possibili schemi contrattuali: il Profit-Loss Sharing, legato alla condivisione del rischio e il Non Profit-Loss Sharing dove non vi è un contratto di condivisione di utili e perdite, ma ci si avvale di meccanismi di scambio di beni e servizi con l’aggiunta di un mark-up sul prezzo di rivendita.
  • Gharar, gli investimenti non rischiosi. La trasparenza, nella finanza islamica, riveste un ruolo molto importante: è infatti vietato imbarcarsi in investimenti con strumenti finanziari che presentino un alto rischio ed elevata incertezza.
  • Maisir, il divieto di speculazione. La legge islamica vieta gli investimenti speculativi, come quelli legati al carry trade o all’arbitraggio. Onde evitare l’utilizzo della leva finanziaria, i fondi di investimento islamici escludono le società il cui rapporto tra debiti e capitale sociale è superiore al 30%.
  • Haram, le attività economiche illecite. Il termine haram significa letteralmente “proibito” e nella finanza islamica indica tutte quelle attività economiche che risultano immorali secondo la legge sacra della Shari’ah: gioco d’azzardo, armi, droghe, alcol, pornografia, terrorismo e ogni attività relativa alla produzione di carne di maiale. Nella finanza islamica, pertanto, non è lecito investire in nessuno di questi settori.

I bond islamici

Tra i principali strumenti finanziari islamic, invece, vi sono i sukuk, i cosiddetti bond islamici, di cui esistono più tipologie. In realtà, però, i sukuk hanno delle differenze rispetto alle normali obbligazioni: infatti, i sukuk vengono emessi al fine di realizzare attività concrete, di cui i sottoscrittori sono proprietari per una quota. Inoltre, accanto al contratto di emissione è presente un contratto di gestione dei beni su cui il possessore del sukuk vanta anche un diritto di proprietà. Il prezzo di questi bond varia in base al ritorno atteso dal progetto finanziato.

Anche per i sukuk vale il divieto di generare guadagno con gli interessi, per cui le tipologie contrattuali applicate sono diverse: ad esempio, negli Ijarah, che sono tra i bond più diffusi e funzionano come un leasing, l’ente finanziatore compra e affitta i beni all’imprenditore, dietro il pagamento di un compenso, ma colui che finanzia ne rimane proprietario. D’altra parte, un simile processo avviene per quanto riguarda il mutuo: l’acquirente mostra l’intenzione di comprare l’immobile che viene però acquistato dalla banca. A questo punto, l’immobile viene concesso in affitto al cliente che si impegna a pagare mensilmente la cifra a cui è stato acquistato con l’aggiunta di una commissione. Solo al termine del pagamento, il cliente potrà ritenersi pienamente proprietario dell’immobile. Per restare fedeli ai dettami della legge, dunque, le tipologie di contratto della finanza islamica seguono metodi che permettono, ad esempio alla banca, di avere un guadagno senza che questo sia legato a interessi di fattore temporale.

Considerando l’insieme delle attività finanziarie islamiche, i sukuk sono secondi solamente ai depositi bancari, il che ne dimostra il tasso di popolarità presso i risparmiatori che seguono le norme della Shari’ah.
 

 
Lo Sharia’ah Board, invece, è l’organo di controllo indipendente cui spetta il compito di certificare ogni prodotto islamico, ma anche di fornire interpretazioni vincolanti per il fatwa (management) e redimere occasionali controversie.

Il microcredito

Nei Paesi musulmani sono molti gli individui che non possiedono garanzie che gli permettano di accedere al sistema bancario, a causa della diffusa povertà di quelle regioni. Per questo motivo, la finanza islamica si basa anche sul microcredito, di tipo mutualistico: un gruppo di individui si impegna a versare annualmente un contributo in una cassa che è usufruibile a rotazione da chi ne ha la necessità, dopo un certo numero di anni e in base ad una graduatoria.

La geografia della finanza islamica

Il primo istituto finanziario islamico nasce in Egitto, in un piccolo villaggio sulle sponde del Nilo, dove nel 1963 ad opera dell’economista Ahmad Al-Najjar viene creata la Cassa Rurale di Risparmio di Mit Ghamr che, grazie alla concessione di microcrediti, diede vita ad una classe di piccoli imprenditori privati.

Ma il primo Paese a convertire del tutto il proprio sistema bancario nazionale in base alla Shari’ah fu l’Iran, nel 1979, seguito da Pakistan e Sudan.

Ed oggi? Di certo è una realtà in crescita: nonostante nè il 2016 nè l’anno in corso siano stati molto produttivi per la finanza islamica, si stima che al 2020 il settore crescerà per oltre 6.7 trilioni di dollari USA. Attualmente, invece, le masse gestite in fondi islamici ammontano a oltre 260 miliardi di dollari statunitensi e si contano più di 300 istituzioni islamiche attive nel settore in tutto il mondo. In Marocco, invece, è recente l’apertura della prima banca islamica, la Umnia Bank.

La finanza islamica è presente soprattutto in alcuni Paesi produttori di petrolio (GCC, i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo) ed anche in Iran e Malesia, con più dell’80% dell’attività settoriale legata proprio alle esportazioni di oro nero. Per questo motivo, ultimamente la crescita della finanza islamica appare frenata, proprio a causa della questione sui bassi prezzi del petrolio. Dal momento che l’economia malesiana è più diversificata rispetto a quella di altri Paesi esportatori di petrolio (tanto che il settore petrolifero e del gas rappresentavano sino allo scorso anno solo il 10% del PIL malesiano), la finanza islamica può trovare maggiore terreno fertile in questo contesto.

 

paesi-petrolio

In Europa e in Italia

In Europa per quanto riguarda la diffusione del sistema finanziario islamico un ruolo importante è stato svolto dall’Inghilterra: la prima banca islamica europea è la Islamic Bank of Britain (IBB), attiva ufficialmente dal 2004. Tra il 2006 e il 2008, invece, sono state create altre quattro banche islamiche: The European Islamic Investment Bank, The Bank of London and The Middle East, European Finance House e Gatehouse Bank, mentre diverse banche internazionali hanno aperto nel Regno Unito alcuni sportelli dedicati, le islamic windows.

In Italia, invece, lo scorso maggio il deputato di AP Maurizio Bernardo aveva mosso una proposta di legge per aprire il Paese alla finanza islamica. Secondo Bernardo, infatti, vi è un’opportunità di business (e anche di integrazione) da cogliere subito e bisogna muoversi per “attrarre capitali ingenti che altrimenti transiterebbero altrove”. Come si legge dal quaderno della Consob “La Finanza islamica nel contesto giuridico ed economico italiano”, per l’Italia l’apertura alla finanza della Shari’ah può rivelarsi interessante “dal punto di vista dei possibili investimenti che soggetti appartenenti al mondo islamico potrebbero effettuare in società industriali e finanziarie del nostro Paese”.

In Italia, infine, va considerato che il 32% della popolazione straniera è musulmana, per cui quella che ad oggi è ancora solo una proposta potrebbe davvero rivelarsi un’occasione da non sottovalutare.
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