Dopo la Brexit il Regno Unito si è trasformato in un Regno Diviso. Andiamo ad analizzare i problemi (di vecchia data) che lo affliggono e gli scenari possibili per definire l’uscita dall’UE.
Debito alle stelle, squilibri sociali, un quantitative easing che non funziona più e che tuttavia è diventato irrinunciabile: sono questi in estrema sintesi i problemi che affliggeranno la Gran Bretagna all’indomani della Brexit. Un cocktail frutto di un malessere economico sviluppatosi in sordina nel corso degli ultimi 20 anni e che ora si appresta a venire a galla restituendo l’immagine di quello che è ormai un “Regno Diviso”: diviso dall’Unione Europea che ha deciso di lasciare e lacerato al suo interno da profonde disuguaglianze.
Ripercorriamo la dinamica che ha portato fin qui e tracciamo la possibile evoluzione del periodo post Brexit con l’aiuto di Alberto Gallo, gestore di portafoglio e capo delle strategie macro di Algebris, intervenuto di recente in occasione di un convegno organizzato a Milano da Bloomberg.
Non rimandare a domani i problemi che potresti affrontare oggi
Partiamo dai fatti. Oggi la Gran Bretagna ha il secondo deficit fiscale più elevato d’Europa (pari al 4,9% nel 2015) e non fa più parte del club dei Paesi finanziariamente più sicuri al mondo, specialmente dopo aver perso il rating AAA a seguito del declassamento da parte di Standard & Poor’s dopo il referendum.
Ma questa è solo la punta dell’iceberg, sostiene Gallo, perché i guai del Regno Unito affondano le radici nel passato, più precisamente in due o tre decadi di aumento del debito e politiche volte a trovare la “fontana infinita della crescita”, procrastinando la risoluzione dei problemi interni.
Il risultato è che nel corso degli anni l’economia britannica non ha saputo diversificare, concentrandosi sulla finanza che oggi ha un peso importante sul PIL. Ma con la stretta regolamentare seguita alla crisi e la Brexit che disincentiva gli istituti di credito ad aprire nuove sedi nel Paese, il settore è in difficoltà. Inoltre il sistema produttivo, proprio a causa della forte concentrazione sulla finanza, non si è adattato ad essere autosufficiente, mentre il Paese sta diventando sempre più isolato, anche – in prospettiva – dal punto di vista degli accordi commerciali.
Una bomba a orologeria
Intanto il calo della sterlina iniziato con la vittoria del fronte “leave” al referendum sta facendo lievitare i prezzi all’importazioni, impattando sui prezzi al consumo: a settembre l’inflazione britannica è già salita all’1% su anno e potrebbe continuare su questa strada. Secondo alcuni analisti arriverà al 3% nel giro di cinque anni. Considerando che il rendimento a scadenza nominale del titolo a 5 anni rende attualmente lo 0,46%, se l’inflazione dovesse mantenersi su questi livelli o salire al 3% come ipotizzano dagli analisti, il rendimento reale rischia di essere pesantemente negativo. Inoltre, man mano che sale l’inflazione il potere d’acquisto dei consumatori si deteriorerà, con effetti negativi sull’economia.
In tutto questo i salari reali non sono cresciuti, a differenza dei profitti societari, ma i consumi sono comunque migliorati, perché finora le famiglie hanno tendenzialmente reagito indebitandosi di più: la conseguenza naturale di questa dinamica è stata un forte aumento del debito privato. La fragilità di questa impalcatura, su cui si regge l’intero sistema finanziario, lega le mani alla Banca Centrale, togliendole la possibilità di intervenire per difendere la sterlina. Il motivo? Se la Banca Centrale decidesse d’intervenire per limitare l’aumento dell’inflazione, un rialzo dei tassi rischierebbe di mettere sotto pressione le famiglie con le rate del mutuo e causare qualche default. Un circolo vizioso, insomma.
Ma i tassi troppo bassi e il QE esteso all’infinito stanno creando anche dei forti sbilanci sociali: chi possiede asset si arricchisce, chi ha solo reddito no. Così il Regno Unito si è trasformato in un “Regno Diviso”, conquistando un poco lusinghiero sesto posto nella top 10 dei membri OCSE per livello di disuguaglianza sociale. A conferma di questa dinamica di polarizzazione del reddito basta dare un’occhiata al grafico qui sotto. Tra il 2009 e il 2015 in Gran Bretagna i posti di lavoro creati sono concentrati ai due estremi: da un lato le occupazioni meno retribuite (camerieri, badanti ecc.), dall’altro quelle più pagate (CEO e manager). Manca invece una crescita nella fascia intermedia.
Senza un piano preciso, che ad oggi non sembra esserci, Gallo prevede che la sterlina scenderà ancora e le previsioni di inflazione continueranno a salire. Un destino che toccherà in ultima analisi anche ai rendimenti dei titoli governativi, che finora sono stati tenuti artificialmente bassi dal QE, ma che non sono sostenibili sui livelli attuali (sotto l’1%): la Gran Bretagna sembra dunque destinata ad avvicinarsi al profilo di un Paese periferico.
Le strade possibili
Certo, molto dipenderà dal tipo di accordo che il Paese sarà in grado di negoziare con l’Unione Europea una volta applicato l’art. 50 del Trattato di Lisbona con cui si avvierà formalmente la procedura di uscita. I possibili scenari tracciati da Gallo sono quattro (tre possibili più uno altamente improbabile).
- Soft Brexit: la Gran Bretagna ottiene un accordo del tutto simile a quelli previsti per la Norvegia e la Svizzera, sia per quanto riguarda l’appartenenza all’UE sia sul fronte del commercio. Si tratta dello scenario più favorevole, che non porterebbe a grandi cambiamenti rispetto a prima del referendum, prendendo tutti i vantaggi sia del “leave” che del “remain” su diversi fronti – commercio e gestione degli immigrati, per citarne due dei più caldi. In questo caso è prevedibile un rallentamento della crescita, ma non una recessione. Il principale ostacolo al raggiungimento di questa soluzione è che il partito conservatore britannico chiede un limite alla libera circolazione delle persone che mal si combina con l’accesso al mercato unico. Ed è probabile che su questo punto l’UE sarà rigida, per non creare un precedente di “membership à la carte”.
- Hard Brexit: in questo scenario, frutto di una negoziazione dura, la Gran Bretagna uscirebbe definitivamente dalla comunità europea, anche a livello commerciale. Questa ipotesi potrebbe implicare per il Paese una recessione e obbligare la BOE a estendere il QE, il che a sua volta potrebbe creare ulteriori sbilanci e bolle.
- Un mix tra i due precedenti: in questo caso – il più probabile nella visione di Gallo- le negoziazioni potrebbero iniziare in modo duro, ma finire con toni più amichevoli. Del resto, sostiene il manager di Algebris, anche la Germania ha interesse a mantenere un certo ordine nel bilancio di potere tra i Paesi europei, per non doverne concedere troppo a Spagna, Francia e Italia.
- Bremain: una marcia indietro su tutta la linea è difficile da immaginare, a maggior ragione perché ad oggi il partito labourista non ha una vera leadership per cui non esiste nemmeno una reale forza all’opposizione.
E l’Europa?
Per ora il Vecchio Continente non sembra risentire particolarmente della decisione della Gran Bretagna. Certo, si tratta di un precedente pericoloso, sarebbe un problema se altri Paesi chiedessero di uscire. In un certo senso la Brexit potrebbe costituire lo spunto per rimettere in discussione il progetto stesso dell’UE. In ogni caso per vedere le reali conseguenze di Brexit bisognerà aspettare l’attivazione dell’articolo 50.