Chi batte il benchmark
Nel 2015, il 34% dei gestori di
fondi comuni di investimento ha battuto il rispettivo “
benchmark”, quello cioè che viene definito come parametro di riferimento del mercato in cui investe il fondo, sia esso azionario, obbligazionario, o misto. Questo significa che ben il 66% dei gestori ha fatto peggio del benchmark. Di più: negli ultimi 15 anni, la percentuale di fondi che hanno “battuto” il benchmark è oscillata fra il 10% (minimo) e il 45% (massimo). Di chi è il problema? Dei gestori, non certo nel parametro preso a riferimento, che diventa così la misura del “perfetto e miglior incapace”.
La domanda allora sorge spontanea: perché affidare i propri risparmi ad una società di gestione, pagare laute commissioni, e vedere i propri risparmi mal gestiti? Non sarebbe forse meglio comprare dei “cloni” del mercato, come gli
ETF, che vivono di vita passiva, e dormire sonni tranquilli senza rigirarsi fra le lenzuola pensando: “che farà domani il mio gestore”?
I dubbi aumentano ancora se si osserva chi è tenuto, fra i tanti fondi disponibili per un investitore italiano, a specificare che la gestione del singolo prodotto si confronta con un benchmark; i fondi italiani devono farlo, ma sono esclusi i fondi esteri.
Cosa è successo?
Molti lettori avranno già compreso che cosa è successo nell’industria della gestione del risparmio italiana: negli ultimi anni sono cresciuti i fondi di diritto europeo armonizzati (
SICAV et similia) gestiti da società estere e spesso posseduti da quelle stesse banche e quegli stessi gestori italiani che non riescono a “battere il benchmark”. Molti di questi fondi sono flessibili, senza benchmark.
Peccato, per l’investitore ovviamente, che la differenza fra la migliore “perfomance” e la peggiore sia abissale: il peggiore dei fondi flessibili ha fatto -27%, il migliore +24%.
Come fa dunque un investitore a comprendere quale “performance” sia da attribuire a capacità e bravura e quale ad incapacità ed incompetenza, quanto all’impatto (positivo o negativo) del trend di mercato (per semplificare, l’indice complessivo del mercato di riferimento) e quanto al “fattore scommessa”, sia essa buona o cattiva?
Non disponendo della “sfera di cristallo”, un risparmiatore cauto e orientato a “cavalcare l’onda” (andare in linea con il mercato) secondo me farebbe forse bene a privilegiare prodotti a gestione passiva, legati a indici – di mercato, settoriali, di
asset class e via discorrendo: questo consentirebbe di minimizzare i costi della gestione (che in tempi di bassi rendimenti, come si è visto per i prodotti obbligazionari, “pesano”), ponendo grande attenzione alla politica di investimento: tanto azioni, tanto obbligazioni, tanto questo mercato, tanto quell’altro.
Paolo L. / Febbraio 17, 2016
A mio parere alcuni punti di questo intervento sono da chiarire e altri appaiono inesatti ma, non conoscendo la fonte delle informazioni, è possibile fraintendere.
Innanzi tutto il benchmark è relativo ad un fondo/ETF, non ad un gestore; quindi non è chiaro cosa intendere con “gestori” che hanno o non hanno “battuto il benchmark”.
Inoltre, il “rispettivo benchmark” è quello dichiarato dal gestore, oppure stabilito nell’indagine oppure assegnato, ad es., da enti quali Morningstar? Perché il battere il benchmark o meno dipende, appunto, dal benchmark.
Non risulta poi che, in generale, i fondi esteri non siano tenuti a confrontarsi con un benchmarck; Morningstar assegna un benchmark a tutti i fondi/ETF, anche al settore dei flessibili (obbligazionari e bilanciati), mentre soltanto per alcuni di questo settore, una parte minima dell’universo fondi, il gestore non lo dichiara.
Le laute commissioni – presumibilmente i costi di gestione – sono sempre dedotte dai rendimenti pubblicati; perciò in prima approssimazione è sufficiente guardare questi ultimi e non preoccuparsi delle prime. Un po’ ovunque, e frequentemente in Advise Only, si sostiene che è meglio scegliere fondi con bassi costi di gestione per puntare a rendimenti più alti e non pagare la “passività” dei gestori; ma essendo i rendimenti già al netto delle spese, queste si possono ignorare valutando i soli rendimenti. Sarebbe come scegliere il rivenditore che guadagna di meno nella vendita di un’automobile senza guardare quanto si paga l’automobile.
Diverso è il discorso sulle commissioni di sottoscrizione/rimborso che con alcuni collocatori possono diventare una percentuale significativa del capitale. Ma si trovano in Internet opportunità con ampie scelte di fondi e commissioni estremamente contenute, come Fundstore con cui Advise Only collabora.
Un investitore non può sapere con certezza se la performance è da attribuire a capacità e bravura o al caso unito a incapacità ed incompetenza, indipendentemente dal benchmark, ma alcuni indicatori – tracking error e information ratio – sono un’utile indicazione in questo senso.
Il suggerimento di privilegiare prodotti a gestione passiva legati a indici (ETF) quando risulta che il 34% dei gestori (o fondi?) ha battuto nel 2015 il benchmark implica il non sapere come individuare questo 34%; risultando più probabile imbattersi nel rimanente 66% si cerca di ridurre questo rischio scegliendo tra gli ETF, confermando così la casualità con cui in generale si sceglie un fondo.
Per vedere se davvero convenga privilegiare ETF rispetto ai fondi convenzionali riassumo a titolo di esempio alcuni risultati a metà febbraio di quattro categorie per Etf disponibili alla Borsa di Milano e per fondi (fonte dei dati: Morningstar):
C1: Azionari Italia
C2: Azionari USA Large Cap Blend
C3: Obbligazionari Governativi Eur
C4: Obbligazionari Corporate Eur
Note. I benckmark degli Etf in particolare non sono quelli attribuiti da Morningstar; di conseguenza i valori di alfa solo limitati ai casi di correlazione significativa tra Etf/fondo e benchmark di Morningstar. Un alfa positivo indica che il fondo ha battuto il benchmark. R3a: rendimento a 3 anni annualizzato.
R3a Alfa Sharpe
C1) Etf (7) 3.1÷0.2 2.2÷-1.8 0.34÷0.17
C1) Fondi (57) 14.7÷-0.2 14.4÷0.93 1.0÷0.30
C2) Etf (16) 16.0÷11.3 0.63÷-5.6 1.5÷1.0
C2) Fondi (133) 18.4÷8.5 1.2÷-6.8 1.6÷0.93
C3) Etf (24) 10.9÷0.40 1.5÷-1.3 2.0÷0.63
C3) Fondi (96) 8.2÷1.0 0.84÷-3.3 1.7÷0.31
C4) Etf (15) 4.3÷-0.14 0.42÷-3.2 1.4÷0.41
C4) Fondi (110) 7.1÷1.50 1.1÷-2.7 1.9÷0.54
Da questo limitatissimo esempio non si direbbe che la scelta casuale di Etf o fondi faccia dormire sonni più tranquilli nel primo caso. Piuttosto, sarebbe necessario individuare un metodo efficace di scelta per entrambi, diverso da quello di guardare ai costi di gestione. E ci sarebbe da sfatare la convinzione che i fondi/Etf siano oggi un prodotto semplice: semplice può essere il funzionamento dal punto di vista dell’investitore, complessa è invece la loro valutazione, soprattutto se “tecnica”, basata cioè sui dati oggettivi passati e intrapresa con l’obiettivo di individuare i prodotti con ragionevoli probabilità di non deludere, sempre nella consapevolezza che la sfera di cristallo, appunto, non c’è l’ha nessuno, neanche il miglior gestore.
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Corrado griffa / Febbraio 18, 2016
I dati sono tratti dall’indagine annuale pubblicata su Plus del Sole 24 ore.
I “benchmark” rilevati nell’indagine sono quelli indicati dai singoli “gestori” dei singoli fondi (i.e., il gestore del fondo 1 ha il suo benchmark, il gestore del fondo 2 ha il suo benchmark, e così via).
Morningstar è (ovviamente) libera di creare/adottare/adattare ulteriori benchmark, utili per “confrontare pere con pere e mele con mele” (fondi della stessa categoria), ma questa scelta è irrilevante quando si guarda ai singoli benchmark adottati da singoli “gestori” che si confrontano, ripetiamo, con il proprio benchmark dichiarato nel prospetto del singolo fondo e non il “benchmark Morningstar” (od altro analogo “indice”).
Nell’articolo è chiaramente ricordato che i fondi esteri ed i fondi flessibili non sono tenuti ad indicare un benchmark di riferimento; a pensare bene, forse i benchmark non sono necessari per far capire agli investitori se i gestori fanno bene o no; a pensare male, l’assenza di un benchmark è voluta proprio per non far capire se i gestori fanno bene o no; ci permettiamo di aggiungere che negli anni è cresciuto il numero di fondi, e quindi di gestori, che hanno abbandonato l’adozione di un benchmark.
Ulteriori considerazioni fatte, molto dotte, sono peraltro ultranee rispetto all’obiettivo dell’articolo, che mantiene i suoi obiettivi (chiamiamoli il “benchmark”) di rappresentare la situazione e la storia del fenomeno indicato; osservazioni che i gestori di professione ed i “valutatori” del processo di investimento potranno meglio declinare in un saggio, piuttosto che in sintetico e contenuto articolo. Grazie.
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