Tax Ruling: chi era costui?
È notizia degli ultimi giorni la “bacchettata” della Commissione Ue su Fca e Starbucks, sanzionati per un uso non corretto del “tax ruling” in Lussemburgo. Ma di cosa stiamo parlando esattamente?
In sostanza, gli accordi di tax ruling sussitono tra un Paese e una società, e forniscono i dettagli sul modo in cui sarà calcolata l’imposta sui redditi della società stessa in quel Paese. Consentono quindi di definire in anticipo il trattamento di questioni fiscali internazionali.
È sulla base del “tax ruling” dunque che le multinazionali con controllate in diversi Stati scelgono la destinazione più vantaggiosa dell’imponibile.
Cosa vogliono fare i governi dei Paesi Ue e Ocse?
I governi di molti Paesi (a tassazione elevata) chiedono da tempo regole più stringenti per limitare gli spostamenti “strategici” di residenza fiscale. Nel mirino c’è il cosiddetto “treaty shopping”, cioè il tentativo delle multinazionali di interpretare gli accordi internazionali a proprio vantaggio, in modo da minimizzare la tassazione complessiva finale.
In molti additano questi escamotage come elusione, se non vera e propria evasione fiscale. Ma tecnicamente sono pratiche del tutto legali: certo, si tratta di una pianificazione fiscale “aggressiva”, che sfrutta ogni possibile “scappatoia” per pagare il meno possibile, ma sempre entro i limiti del “lecito”, appunto.
Questo tipo di pianificazione oggi è ampiamente utilizzata da gruppi industriali (come appunto Fca), finanziari (molte banche che hanno costituito società di servizi e gestione in Irlanda e Lussemburgo) e servizi hi-tech e di e-commerce (Google e Amazon sono accusate di fare business in Italia senza pagare le tasse). In questo contesto, gli accordi di tax ruling “scolpiscono nella pietra” cosa si può fare e cosa no dal punto di vista fiscale: definiscono l’aliquota applicata a tasse e imposte sui redditi societari, la durata dell’accordo e tutti vantaggi secondari a cui va incontro una multinazionale che decida di fissare la propria sede principale in un determinato Paese.
Quanto risparmiano le imprese con i “tax ruling”?
Grazie alla minore tassazione assicurata dai “tax ruling” infatti, le imprese possono conseguire risparmi significativi. Un esempio? In Irlanda la corporate tax (l’imposta sui redditi d’impresa) è al 12,5% contro il 30% circa di Germania, Italia e Francia (non a caso diversi colossi hanno istituito la loro sede legale a Dublino). E molti governi europei (tra cui Gran Bretagna, Olanda, Finlandia, Lussemburgo e Malta) puntano proprio sui generosi sconti fiscali per attrarre nuovi investimenti.
La sola Apple ha legittimamente accumulato circa 150 miliardi di dollari in società estere, che in caso di rimpatrio negli USA verrebbero tassate con aliquote molto più pesanti. E anche se non parliamo solo di colossi come Apple, sommando tutte le disponibilità finanziarie sparse fra Paesi “white list” e semi-paradisi Ue, la cifra è immensa.
Che cosa “bolle in pentola”
Il rovescio della medaglia è l’erosione di base imponibile e la fuga dei capitali sperimentata dai Paesi a tassazione più elevata: secondo le stime dell’Ocse, il “danno” per gli erari è calcolabile fra il 4 e il 10% della Corporate income tax (CIT): in “soldoni”, fra i 100 e i 240 miliardi di euro all’anno. Proprio per mettere un freno a questi deflussi, i governi di questi Paesi stanno cercando di dare un giro di vite al sistema fiscale internazionale.
Che cosa attenderci?
Quella che si sta aprendo sarà probabilmente una stagione di regole crescenti e uniformi, che andranno a “normare” sia le più recenti attività web-based la cosiddetta “old economy”, con un occhio rivolto all’aumento della base imponibile per i Paesi a corto di risorse. La morale quindi potrebbe essere la seguente: “Un “tax ruling” è per sempre, finché la UE non vi separi”.