Si avvicinano i mondiali di calcio 2014, molti di voi rispolvereranno le bandiere tricolori e cominceranno a organizzarsi con amici e parenti per il grande spettacolo del calcio internazionale. Il CT Prandelli ha convocato i 31 papabili per il Brasile, a breve saranno scelti i 23.
Questa premessa per introdurre l’argomento di oggi. Come molti, infatti, ieri sono andato a vedere in che posizione si trova l’Italia alla vigilia della competizione. In base al ranking mondiale FIFA, la classifica che misura la “forza calcistica” di un paese, siamo noni. Maluccio. Poi sono tornato al mio lavoro e la mia attenzione è caduta sulla classifica mondiale per PIL. Noni anche qui, male!
Lasciamo il calcio a Prandelli e proviamo ad analizzare il dato del PIL corrente. Ho scelto un paese per tale confronto: il Giappone (per fortuna è 47° per il ranking FIFA e, almeno sul terreno verde, non dovrebbe darci preoccupazioni).
Potete notare che negli ultimi mesi il Giappone presenta una variazione del Pil reale positiva. Come mai? Gioca un ruolo importante la politica fiscale in un contesto istituzionale diverso da quello dei paesi appartenenti all’euro. Le conseguenze negative della moneta unica, tra l’altro, rappresentano un tema di grande attualità: alle imminenti elezioni europee, c’è chi teme l’affermarsi dei partiti euroscettici.
Pil giapponese e italiano a confronto
L’Ufficio di gabinetto in Giappone segnala una crescita reale del Pil dell’1,5% rispetto ai tre mesi precedenti (l’accelerazione maggiore degli ultimi 10 trimestri) e al 5,9% su base annualizzata. La crescita è sostenuta da un incremento dei consumi, saliti al 2,5%, in previsione dell’aumento dell’Iva dal 5 all’8%.
In Italia, invece, il Pil ha subìto un calo dello 0,1% su base mensile e dello 0,5% su base annua.
Analizziamo ora la politica fiscale dell’Italia e del Giappone.
L’Abenomics giapponese
Il gioco del Giappone (che vi abbiamo spiegato qui e qui) è rischioso, ma ammirevole. La manovra del premier Shinzo Abe è espansiva e a saldo zero di bilancio pubblico. Cosa significa?
Abe ha giustamente aumentato prima la spesa pubblica (che costituisce un’uscita per lo Stato) e, una volta verificato l’impatto espansivo sul Pil, ha fatto lo stesso con la tassazione (che costituisce un’entrata per lo Stato). Perché dico giustamente?
Aumentare le tasse prima e la spesa pubblica (di qualità) dopo, rischia di deludere le aspettative delle persone, che potrebbero non fidarsi delle promesse future di un incremento della spesa pubblica (a fronte dell’aumento della tasse correnti). L’entusiasmo sarebbe invece rinvigorito nel caso opposto: esattamente quello che è avvenuto in Giappone.
Naturalmente è presto per celebrare il successo dell’Abenomics, ma non possiamo dimenticarci del dato positivo del Pil.
L’euro e la politica fiscale all’italiana
Il gioco italiano è invece deprimente e confusionario. L’idea (fallimentare) dell’austerità espansiva in Italia negli anni, in termini di tagli alla spesa (spending review) e variazione della tasse, è stata disordinata e ha generato sfiducia e riduzione della domanda interna.
Dobbiamo dunque imitare il Giappone?
Qui ricadiamo in quello che l’economista Stiglitz ha definito un dilemma: euro sì o euro no.
Facciamo un passo indietro. In macroeconomia, l’equilibrio della bilancia commerciale si ha quando le esportazioni equivalgono alle importazioni. Tra i Paesi dell’Eurozona vige un regime di cambio fisso. Di conseguenza, una manovra fiscale espansiva come quella di Abe non garantirebbe l’equilibrio (esportazioni pari alle importazioni). Persisterebbe quindi il problema del debito (privato) estero (sull’argomento leggete in particolare l’analisi di Maurice Obstfeld, questo articolo sul “Sole 24 Ore”, questa analisi sul nostro blog e quest’altra), favorito nell’Eurozona dal cambio fisso.
Ricordiamo infatti che la fragilità dei bilanci dei soggetti privati in Italia e in altri Paesi dell’Eurozona ha causato l’esplosione dei debiti pubblici come conseguenza dei loro salvataggi da parte dei governi.
Il problema riporta quindi al dilemma posto da Stiglitz. Vediamo gli scenari legati alle due soluzioni:
- Euro sì. La sua sostenibilità (non priva di costi), richiede forme di cooperazione e coordinamento all’interno dell’Eurozona, in modo da sanare gli squilibri economici tra paesi. Tuttavia, la realizzazione di questa prima soluzione richiede una minaccia credibile che incentivi meccanismi di cooperazione e coordinamento in sede europea. Minacce che francamente non vedo. Una riflessione: a me fa un certo senso l’utilizzo del termine “minaccia” nei dibattiti politici sull’euro con i termini “cooperazione” e “coordinamento”(condizioni ritenute sufficienti per la sostenibilità della moneta unica).
- Euro no. È legata alla prima alternativa. Nel caso in cui non si realizzassero forme di cooperazione e coordinamento, il regime di cambio fisso è destinato a crollare per sua insostenibilità.
Qualche spunto d’investimento sul tema
All’interno del nostro sito abbiamo realizzato diversi portafogli anti-crisi o sull’Abenomics:
- Euro OK, per i risparmiatori che non credono in una dissoluzione dell’euro;
- Euro Tsunami, per i risparmiatori euroscettici;
- Intermedio, per coloro che hanno opinioni meno nette sul futuro dell’euro
- Winning Abenomics, per i risparmiatori che credono nell’Abenomics;
- Abenomics Wrong, per coloro che ritengono l’Abenomics un insuccesso.
Venite a trovarci!