Ti senti più felice all’idea di poter fare ciò che fanno gli uomini e divenire magari presidente della Repubblica? Dio, quanto vorrei essere nata in uno di quei Paesi dove le donne non contano nulla. Tanto, il nostro, è un sesso inutile.
Così un’amica della giornalista Oriana Fallaci, il cui sarcasmo ispirò il titolo del libro “Il sesso inutile. Viaggio intorno alla donna” (1961). Ma siamo sicuri che siano passati quei tempi?
Partiamo da un fatto: oggi come allora, in Italia non si è ancora visto un presidente della Repubblica donna. Il 28 aprile 2015 anche Papa Francesco alla sua udienza generale ha detto che bisogna “sostenere con decisione il diritto all’uguale retribuzione per uguale lavoro. […] La disparità è un puro scandalo!”.
In occasione del primo maggio, facciamo il punto sul lavoro per le donne italiane.
Donne al lavoro: un confronto internazionale
Il divario di genere (gender gap) è una delle 5 disuguaglianze che affliggono l’Italia. Il gender gap è un indicatore sintetico introdotto nel 2006 dal World Economic Forum per descrivere e monitorare nel tempo le disparità di genere, intesa come differenze in termini di accesso alle risorse e alle opportunità disponibili nei diversi paesi per uomini e donne. L’indicatore considera la parità in quattro dimensioni: livello di istruzione, partecipazione all’economia, salute e sopravvivenza, potere politico. L’Italia è al 69mo posto su 142 paesi.
Siamo invece primi in Europa per differenza nel tasso di occupazione tra i due sessi; va meglio per presenza femminile nel Cda e soprattutto per divario salariale tra i sessi (gender pay gap), che è inferiore alla media Ue. Guardate l’infografica.
Perché le donne lavorano meno degli uomini
Cultura
Secondo la ricerca “Occupazione-Istruzione-Educazione: le trappole nascoste nel percorso delle ragazze verso il lavoro” realizzata da McKinsey & Co. e Valore D, le donne fin dalla tenera età di 6-10 anni sono più soggette a pregiudizi e condizionamenti, soprattutto da parte delle loro madri: la maggior parte di queste ultime gioca con le figlie svolgendo attività domestiche, mentre coi maschi si cimenta in giochi da tavolo. Crescendo (6-17 anni), le ragazze continuano a essere più coinvolte nelle attività domestiche rispetto ai ragazzi (apparecchiare/sparecchiare la tavola, rifarsi il letto, aiutare nelle pulizie). Questi comportamenti si sedimentano e diventano col passare del tempo delle abitudini, che portano le donne a essere più inclini a lavorare dentro casa che fuori.
Formazione
In caso di difficoltà economiche o di spese scolastiche troppo elevate, è più facile che siano le figlie a lasciare la scuola superiore o l’università (25% contro 12% dei maschi per le superiori; 67% contro 58% per l’università).
A ciò si aggiunge che la formazione delle donne è meno adeguata al lavoro rispetto a quella degli uomini. Tant’è che le prime impiegano più tempo a trovare un’occupazione rispetto ai loro maschi. La ricerca ammette una scomoda verità: le donne scelgono generalmente facoltà letterarie, linguistiche, giuridiche, politico-sociali, che sono meno spendibili e remunerative sul mondo del lavoro.
Tra l’altro, gli ambiti più “saturi” offrono stipendi minori per le donne, generando così una differenza salariale tra i sessi. Al contrario, le STEM (acronimo di Science, Technology, Engineering, Mathematics) offrono migliori sbocchi lavorativi e salari (quasi 1.500 euro netti mensili a 5 anni dalla laurea, calcolano McKinsey e Valore D). Ma sono le materie meno studiate dalle donne: solo dal 9,9%, contro il 14,8% dei maschi.
Uno studio degli economisti Anelli e Peri per la Fondazione Rodolfo Debenedetti (“The Wage Gap in the Transition from School to Work”, 2012) indaga anche i motivi per cui le donne non amano le STEM. Non ha nulla a che vedere con una scarsa abilità nei numeri femminile, ma dipende piuttosto dai valori individuali, riassumibili con la dicotomia competizione/egoismo e cooperazione/altruismo. Secondo gli economisti, i giovani uomini sono più propensi alla competizione/egoismo e le giovani donne alle cooperazione/altruismo. Questa preferenza influisce sulla scelta della facoltà universitaria.
Pregiudizi
McKinsey e Valore D spiegano con i pregiudizi la maggiore insoddisfazione delle donne verso la loro prima esperienza lavorativa (stage/apprendistato). Solo il 10% svolge un tirocinio retribuito, contro il 22% dei ragazzi. Il 51% delle giovani tra i 15 e i 24 anni ha un contratto precario, contro il 40% dei maschi. La percentuale di precari resta in seguito comunque più alta tra le donne. A proposito dell’inserimento nel mondo del lavoro, ribadiamo che i titoli di studio meno appetibili spiegano buona parte di questi dati.
D’altro canto, depone a favore della presenza di pregiudizi il minor numero di donne a livelli dirigenziali nelle imprese (glass ceiling effect), scrivono ancora gli economisti Anelli e Peri. A questo proposito, McKinsey & Co. stima che per le donne europee e americane è mediamente 2-3 volte più difficile fare carriera che per gli uomini.
Mancanza di strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia
Qui la colpa è sia delle imprese, sia dello Stato italiano. Per quanto riguarda le prime, basti pensare che solo il 25% dei lavoratori dipendenti gode di un orario flessibile (contro una media europea del 60%) e solo il 4% gode del telelavoro (ossia lavora da casa usando il PC), contro il 30% della Scandinavia. Lo Stato italiano non si impegna molto a sostenere la maternità: non sono sufficienti i posti agli asili nido (per l’Istat la domanda soddisfatta è stata pari solo all’11,8% nel 2011-2012) e nemmeno il congedo di paternità obbligatorio e retribuito introdotto dalla riforma Fornero nel 2012 – un congedo-lampo di un giorno soltanto!
Per tutti questi motivi, più che “inutile”, a me pare che oggi il sesso femminile sia “inutilizzato” dal mercato del lavoro italiano. Voi cosa ne dite?