È ancora muro contro muro tra Grecia ed Eurogruppo, che il 30 marzo 2015 ha rifiutato il secondo piano di riforme di Atene.
Il più grande creditore della Grecia, la Germania, dice che la zona euro non darà ad Atene altri aiuti finanziari fino a quando non avrà un elenco più dettagliato di riforme. Il governo greco cerca un “compromesso onorevole” ma non “a ogni costo”, ha detto il premier greco Tsipras.
Come finirà la trattativa? E quanto è grave la situazione economica ellenica?
AdviseOnly l’ha chiesto a Paolo Manasse, professore di Macroeconomia e di Politica Economica all’Università di Bologna. Manasse ha pubblicato su numerose riviste scientifiche fra cui l’American Economic Review, la European Economic Review e il Journal of International Economics. Scrive su Linkiesta, roubini.com, voxeu.org e lavoce.info e ha un blog personale: Back-of-The-Envelope Economics.
Quanto sono probabili un default della Grecia e un Grexit? E quali sono i rischi per gli altri Paesi?
Dal 2008 a oggi la Grecia ha migliorato il suo avanzo di bilancio di 12-13 punti di PIL con una manovra micidiale, di dimensioni senza precedenti dal secondo dopoguerra. Guardando gli indicatori OCSE sulle riforme strutturali, nonostante il paese sia partito da una situazione pessima, ha fatto grandi progressi. La Grecia, però, ha perso oltre ¼ di PIL negli ultimi anni ed è in una situazione sociale difficile, che spiega la vittoria di Tsipras.
Detto questo, il default che rischia la Grecia oggi è diverso da quello di cui si parlava nel 2012. Di mezzo ci sono state due ristrutturazioni, che hanno tagliato il 50% valore facciale del debito greco in circolazione. Adesso l’80-90% di questo debito è detenuto dalle istituzioni internazionali, per cui un eventuale default potrebbe anche non provocare fallimenti a catena di banche estere. La situazione però pone un problema di credibilità del governo ellenico e il paese rischia di essere tagliato fuori dai finanziamenti internazionali. In questo caso, il problema diventerebbe solo greco.
Nonostante gli eccessi polemici di Atene, soprattutto a uso interno (a causa delle promesse che Tsipras non potrà mantenere), penso che alla fine si arriverà a un compromesso. Si troverà un punto di incontro per definire delle riforme con scadenze specifiche e un allungamento dei tempi per raggiungere gli obiettivi di bilancio al fine di rendere più sostenibile l’aggiustamento fiscale.
Più precisamente potrebbe essere che, anziché un taglio dell’avanzo primario di 4,5 punti di PIL, magari scenderanno a 2 punti e il restante 2,5 lo destineranno alle spese sociali. Questo renderebbe l’aggiustamento più sostenibile socialmente e politicamente, perché consentirebbe a Tsipras di non perdere la faccia pubblicamente. In ogni caso, la Grecia ha pochissimi spazi di manovra e deve necessariamente trovare un compromesso.
Il rischio di contagio per gli altri Paesi è difficile da quantificare: da un lato, come si diceva, la situazione è cambiata rispetto al 2012, ma dall’altro i mercati finanziari sono imprevedibili e la fuga dei capitali dai Paesi Periferici è sempre possibile. Considerate poi le tensioni già presenti in Yemen e Ucraina, lo scenario potrebbe degenerare in tempi brevi.
Quello greco è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che lei ha studiato approfonditamente: la convergenza nelle politiche fiscali europee che genera una divergenza nell’andamento delle economie reali dei vari Paesi. Ci spiega meglio la natura del problema?
I dati mostrano che dal 2009 si è registrata una riduzione delle divergenze in termini fiscali. A partire da quell’anno i Paesi dove il disavanzo era più alto, come la Grecia, hanno fatto politiche più restrittive. La convergenza, quindi, si vede più sui disavanzi che sul debito.
Osservando invece l’economia reale, si scopre che indicatori come il tasso di disoccupazione e il rapporto tra investimenti e PIL sono divergenti dal 2008. Lo stesso vale per i tassi di crescita, almeno fino al 2013.
In un mio studio ho verificato se esistesse solo una correlazione o anche una relazione di causa tra questi fatti. Si nota che, mediamente, i Paesi dell’eurozona hanno politiche del debito procicliche: tanto più peggiora l’economia, più si stringe la politica fiscale e viceversa. Proprio il contrario di quello che si dovrebbe fare!
Questa convergenza negli avanzi di bilancio ha portato a divergenze economiche molto marcate. Con una moneta unica, l’unico modo per evitare questi squilibri è la deflazione nei Paesi in disavanzo e l’inflazione in quelli in avanzo. Ma se le economie dell’eurozona non convergono e si accumulano squilibri crescenti, si mina l’esistenza della moneta unica e dell’intera Ue.
L’eurozona è in difficoltà, sia economicamente che strutturalmente: che soluzione proporrebbe per uscire dalle secche in cui sembra essersi arenata?
La prima cosa da fare è aumentare la capacità fiscale dell’Europa. Oggi il bilancio dell’Ue è intorno all’1% del suo PIL, di cui circa la metà è destinato alla Politica Agricola Comune (PAC). Ciò non dà spazio di manovra per attuare una politica di redistribuzione/assicurazione a livello europeo, ad esempio contro la disoccupazione. Qualche forma di questo tipo, anche se temporanea, servirebbe ad alleviare le divergenze tra gli Stati.
Ben diversa è la situazione negli USA, dove i singoli Stati devolvono anche il 20% del loro bilancio a un fondo che redistribuisce il denaro dagli Stati ricchi a quelli poveri. L’Ue deve muoversi su questa strada, prendendo le risorse ad esempio dall’Iva per creare un fondo comune. È questa la caratteristica di uno Stato unitario.
In caso contrario, gli unici meccanismi di convergenza per i paesi in disavanzo saranno deflazione selvaggia e l’aumento della disoccupazione, precondizione per la riduzione dei salari. Questi meccanismi alla lunga potrebbero provocare un’implosione dell’Europa. Senza qualche forma di assicurazione europea, non si possono salvare capra e cavoli, ossia ottenere al contempo la convergenza del debito e anche delle economie: perseguire un obiettivo va a scapito dell’altro.
In seconda battuta, bisogna fare le riforme strutturali e prendere provvedimenti per aumentare la mobilità nazionale e internazionale del lavoro. Ma queste riforme richiedono tempo per dispiegare i loro effetti.
C’è chi dice che soluzione al problema sia uscire dall’euro. Lei cosa ne pensa?
Penso sia una sciocchezza. I problemi dell’Italia sono nati prima dell’euro. Abbiamo inefficienze mostruose e note a tutti che ci portiamo dietro da 20 anni: tasse, giustizia, lobby, ordini professionali, scuola, burocrazia, corruzione.
Quando non c’era l’euro potevamo permettercele, perché la svalutazione metteva la polvere sotto il tappeto: era un buon modo, meno costoso, per tirare a campare. Ora la polvere va tolta per non finire soffocati. In un certo senso è un bene che i nodi siano venuti al pettine e che i problemi vengano affrontati. Se non lo faremo, finiremo come la Grecia.
Persecutor / Marzo 31, 2015
Ma santo Dio…noi NON siamo stati uniti d’europa e non lo saremo MAI! Quindi SCORDATEVI redistribuzione da stati ricchi a stati poveri!La germania si lamenta del quantitative easing, figuriamoci se si incominciasse a parlare di redistribuzione fiscale!
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dubbiosa / Aprile 3, 2015
concordo, figuriamoci se redistribuiscono quello che sono riusciti a succhiare
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dubbiosa / Aprile 3, 2015
“n caso contrario, gli unici meccanismi di convergenza per i paesi in disavanzo saranno deflazione selvaggia e l’aumento della disoccupazione, precondizione per la riduzione dei salari.”- a mio parre è questo l’obiettivo, raggiunto il quale le multinaziazionali grandi e piccoli forse smetteranno di delocalizzare in paesi poveri
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