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#IlGraffio: pro e contro della riforma delle banche popolari di Renzi

Il Governo Renzi nella giornata di martedì 20 gennaio 2015 ha approvato il DL “Investment Compact” nel quale è previsto un “cambio epocale” (dopo decenni di sterili dibattiti e accese polemiche) per le banche popolari, ma solo per quelle con attivi sopra gli 8 miliardi di euro.

Sono 10 le banche popolari in Italia che nei prossimi 18 mesi dovranno superare la regola del “voto capitario” (un voto a testa, indipendentemente dal numero di azioni possedute) che in questa tipologia di banca ha sinora significato “controllo bloccato”. La norma (non ancora disponibile nel testo definitivo) elimina l’articolo 30 del T.U. bancario (TUB) che recita “ogni socio ha un voto, qualunque sia il numero delle azioni possedute” e prevede il tetto dell’1% per la partecipazione del singolo socio e un numero minimo di soci (200).

Analizziamo pro e contro della riforma delle banche popolari targata Renzi.
I pro della riforma delle banche popolari

Tra le buone notizie, innanzitutto, la contendibilità del controllo azionario anche per le banche popolari: essa dovrebbe favorire il corso delle azioni, che diventa più appetibili per quegli investitori che sinora sono stati lontani da questa categoria di azioni. I mercati hanno anticipato questa possibilità, con quotazioni in rialzo per le banche popolari presenti in Borsa.

È altrettanto rilevante che la corporate governance non sarà più appannaggio di “gruppi chiusi” che in assemblea, e nella vita quotidiana di molte banche popolari (emblematica la storia della Banca Popolare di Milano), esprimono interessi specifici, troppo spesso in contrasto con una sana gestione del credito.

Forse non termina qui la storia di tanti “Amici” della banca (così si chiama una associazione di dipendenti, ex-dipendenti, sindacalisti, parenti e affini), ma certamente le prospettive per una gestione meno sindacalizzata e più manageriale sembrano arridere alle banche popolari.

I contro della riforma delle banche popolari

Una nota di demerito al governo per aver:

  • modificato il quadro normativo con un decreto-legge senza un dibattito preventivo e contemporaneo con gli stakeholders;
  • limitato la riforma ad alcuni aspetti formali (voto capitario, in primis) senza una chiara formulazione di un disegno complessivo di riordino del settore bancario;
  • previsto una modifica solo per le banche popolari di rilevanti dimensioni.

Un giudizio complessivo sulla riforma delle banche popolari

In sintesi, si tratta di una riforma attesa da decenni, che va nella direzione corretta, ma che avrebbe meritato di essere inserita in un disegno complessivo di orientamento (ma non intervento) del settore bancario.

L’industria bancaria si trova ad affrontare un altro anno difficile da “posizioni di retroguardia” (come evidenziato dal comprehensive assessment della Bce del 26 ottobre 2014). Infatti, fra il 2004 e il 2008 i crediti bancari sono cresciuti di 445 miliardi di euro, circa il 10% annuo. Da tale picco, i crediti erogati sono costantemente diminuiti e, a settembre 2014, si sono fermati a 1.240 miliardi: 186 miliardi in meno. Un crollo, con tanti colpevoli e tanti feriti.

Nel breve volgere fra giugno 2013 e settembre 2014, i crediti deteriorati sono passati dal 9,5% del totale dei crediti alla clientela al 10,9%, assestandosi, a settembre 2014, all’88,9% del capitale netto delle banche (una percentuale che sarebbe stata superiore, in assenza degli aumenti di capitale nel frattempo eseguiti da molte banche).

Le banche hanno necessità di buoni capitali, buoni azionisti, buoni manager, buoni clienti. Sine qua non.

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